“Facevo il militare alla Cecchignola di Roma. Compagnia Atleti. Fucilieri assaltatori. Avevo vent’anni. C’era un commilitone, che più degli altri mi era congeniale. Si chiamava Luciano. Aveva i capelli biondi e veniva da Foggia. Parlavamo più di calcio che di donne”.
Luigi Martini è stato il terzino sinistro della Lazio campione d’Italia per la prima volta. Racconta quell’epopea, in un’intervista “Il Foglio”, con l’orgoglio di chi sa che per i tifosi quello resta lo scudetto per antonomasia…
“Mi sono chiesto tante volte perché quel tricolore sia rimasto nell’anima anche di chi non c’era. La spiegazione di questo unicum sta nell’unicità del nostro condottiero e nelle sue intemperanze. Giorgio Chinaglia era il tifoso che scendeva in campo. Se qualcuno esitava, lui lo spingeva, anche platealmente. Se qualcuno sbagliava, lui si arrabbiava. Come quelli che la partita la guardavano dalle tribune. Era l’eroe di un’immedesimazione, che non ha uguali in tutta la storia del calcio”.
Luigi Martini e Luciano Re Cecconi. Due destini che si incrociano, si attraversano e si perdono per sempre…
“Io giocavo a Livorno e può immaginare come fosse complicato per un giovane di destra, come me, trovarmi alla fine degli anni ’60 nella città dove era nato il Partito Comunista. I capi tifosi venivano tutti dal porto ed erano molto turbolenti Dovevi stare attento a non provocarli in nessun modo, perché sarebbe stato troppo pericoloso. In compenso, l’allenatore era un grande campione e un grande uomo. Armando Picchi mi ha insegnato a camminare senza grilli in testa, lungo i muri della vita. Re Cecconi giocava nel Foggia. Fui acquistato dalla Lazio un anno prima di lui. Arrivò dopo la promozione in serie A, insieme a Tommaso Maestrelli. Fu bellissimo ritrovare un amico. Ci iscrivemmo a un corso di paracadutismo e, tra una partita e l’altra, ci lanciavamo a capofitto dal cielo”.
Dicono che quella Lazio sia stata anche una irrepetibile saga degli eccessi…
“Si era innescato un meccanismo di rivalità, che si propagava dalle partitelle quotidiane a fuori dal campo. Eravamo sempre gli uni contro gli altri. Senza esclusione di colpi. Come ti giravi, eran botte. I ritiri li facevamo in un albergo sull’Aurelia molto decentrato. Era un motel in primo luogo deputato a ospitare coppiette clandestine e anche qualche prostituta di professione. Tutto intorno, c’erano prati e spazi aperti. Qualcuno di noi portò una pistola e cominciò il tiro a segno. Noi volevamo dimostrare che eravamo più bravi di Giorgio Chinaglia. Lui era il clan e il capoclan. Era Chinaglia. Luciano e io non eravamo sulla sua stessa lunghezza d’onda. Gli eccessi ci sono stati, ma quelle rivalità senza limite hanno sviluppato in tutti noi una forza interiore, che ha consentito a ciascuno di dare più di quello che aveva. Senza quelle rivalità, sparate all’eccesso, sarebbe stato impossibile strappare lo scudetto a corazzate concepite per vincere, come la Juventus, l’Inter e il Milan. Dove tutti i componenti della rosa erano inquadrati e sorvegliati a vista. Non avevamo sopra di noi un osso duro, come Giampiero Boniperti. Eravamo in balia di noi stessi e, così come eravamo, abbiamo vinto contro tutti. Mi ricordo le parole sprezzanti di Pier Paolo Pasolini: “Un manipolo di fascisti ha vinto lo scudetto”. Era la sintesi impietosa di come venivamo considerati: indisciplinati, poveracci, fascisti e tutti i peggiori aggettivi. La gente si immedesimava proprio in questa battaglia impari, che tutti volevano perdessimo e che, invece, abbiamo vinto. Siamo stati quella sporca dozzina, capace di sconfiggere quelli che ci aspettavano al varco, dall’alto della loro forza, disciplina e organizzazione”.
Chi fu a sparare un colpo di pistola contro il lampadario perché non aveva voglia di alzarsi dal letto per spegnere la luce?
“Sergio Petrelli, il mio equivalente nella parte opposta del campo”.
Poi accadono due tragedie l’una di seguito all’altra. Il 2 dicembre 1976 muore di cancro Tommaso Maestrelli, che di quella sporca dozzina era l’allenatore, il padre, lo psicologo e il confessore. Un mese e mezzo dopo, in un maledetto pomeriggio del 17 gennaio 1977, un gioielliere uccide a bruciapelo il ragazzo biondo della Cecchignola, che aveva simulato per burla una rapina. Per Luigi Martini Luciano Re Cecconi non era mai stato solo un compagno di viaggio, ma un fratello aggiunto. Nulla per lui sarà come prima…
“Ero un calciatore, che basava tutto sulla forza interiore, l’agonismo e l’aggressività. Lo aveva perfettamente capito Maestrelli che, quando gli chiesero quale fosse il suo giocatore ideale, rispose “uno che concentri in se il tempismo di Pino Wilson, la voglia di vincere di Chinaglia, la facilità di corsa di Re Cecconi e l’aggressività di Martini. Quelle due morti ravvicinate mi fiaccarono l’anima e il corpo irrimediabilmente. Sentii spegnersi la fiamma che era dentro di me. Il calciatore, che ero stato, non c’era più. Ho provato a continuare, ma era sparito tutto quello che mi teneva in gioco. Imparai che la vita ti può togliere tutto in un attimo e, in una notte di malinconia, ho deciso di cambiar lavoro”.
Dalle praterie verdi a quelle del cielo. Il cielo, a cui si avvicinava con il suo amico Luciano, prima di calarsi con il paracadute. Martini diventa un pilota dell’Alitalia…
“Non era come in campo, quando Luciano, se sbagliavi, ti copriva le spalle e non ti faceva fare brutta figura. Volando lassù ho capito per la prima volta che cosa significhi essere solo con te stesso”.
Dopo ventimila ore nel cielo infinito, Martini lascia l’Alitalia e viene eletto deputato nelle fila di Alleanza Nazionale…
”All’inizio è stato complicato, perché, se non sei un politico di professione, devi solo guardare il capogruppo e pollice verde, pollice rosso, a favore o contro, come un autonoma. Non ti fanno, come si dice in gergo, neppure toccare palla. Poi, quando sono stato rieletto, mi sono sentito più a mio agio e ho cominciato a giocare anch’io. Venti disegni di legge con Luigi Martini primo firmatario e un centinaio, come secondo. Dalla politica ho imparato che non bisogna mai avere ragione prima degli altri”.
Dalle burrasche della politica a quelle del mare il passo è lungo. Martini acquista un’Amel di 53 piedi e per sette anni la sua vita è mare e oceani…
”Ho girato buona parte del mondo. Ho attraversato il Mediterraneo solo con mia moglie. Le due volte che ho solcato l’oceano, eravamo quattro skipper e quattro marinai. Io sono agnostico a 360 gradi, ma quando sei in mare con davanti per trentadue giorni solo la linea dell’infinito, ti viene da pensare a un essere superiore. Il mare è misticismo. Se Dio esiste, sta nel mare. Navigando, ho imparato anche l’abc della vita, che ancora mi mancava e, conseguentemente, a scrivere come prima non sapevo”.
Il Martini di oggi è distante anni luce dal ragazzo, che alla Cecchignola parlava di calcio e di donne con il ragazzo biondo, venuto da Foggia…
“Il calciomoderno non mi piace. Saranno pure fenomeni, ma tutti quei passaggi interlocutori non li sopporto. Laziale, però, lo sono ancora e lo sarò per sempre”.
Lei che di scudetti e di imprese temerarie se ne intende, vede all’orizzonte il terzo scudetto?
“Assolutamente sì. E’ tutt’altro che un’impresa impossibile. Lo scudetto può arrivare. La squadra è forte e Maurizio Sarri ha avuto un anno di tempo per temprarla. Io ci credo”.
Gigi Martini, c’è qualcosa della più straordinaria Lazio di tutti i tempi che le è rimasto dentro, in cima al caleidoscopio dei ricordi?
“Ho sempre presente nel cuore il mio incontro con Maestrelli il giorno prima della sua morte. Era cosciente che la sua vita stava per finire. ma con lo sguardo mi rassicurava. Mi diceva: tranquillo è tutto a posto. Come quando giocavamo”.