Lo Studio Ovale e il ‘tecno-totalitarismo’
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Lo Studio Ovale e il ‘tecno-totalitarismo’

C'è da chiedersi se esiste un’etica per le applicazioni dell’intelligenza artificiale nell’era digitale o se, in attesa di una teoria per questa condizione, non sarebbe meglio l’intervento del legislatore

Lo Studio Ovale e il ‘tecno-totalitarismo’
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13 Marzo 2025 - 19.04 Culture


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di Marcello Cecconi

Sono sempre stato convinto di aver interiorizzato gli strumenti utili per garantirmi una minima visione del mondo in modo razionale, poi assisto in tv, sui social e quotidiani on line, alle immagini, parole e prossemica di quell’incontro nello Studio Ovale della Casa Bianca e le mie presunzioni, evidentemente sopravvalutate, si sono frantumate. Accade quando vedo il piccolo comico senza “carte da giocare” che dirige una guerra finanziata per tre anni dagli stessi americani e al quale, improvvisamente, gli si comunica la chiusura dei cordoni della borsa e degli occhi dei satelliti Starlink che illuminavano e sostenevano quella guerra.

Nessuna meraviglia per il fulmineo cambiamento, compreso quello dell’etica politica, ma in questo caso questa convinzione non è stata sufficiente per salvarmi dallo stordimento improvviso dell’essere catapultato in una realtà alternativa. Ecco, appunto, l’etica, la filosofia al tempo dell’intelligenza artificiale nell’era digitale. C’è da chiedersi se esiste già una teoria di questa condizione o se dovremo attendere ancora molto affinché qualcuno ne dimostri una affidabile. Di certo la domanda apre a una riflessione complessa, perché accarezza il potere, la libertà, la democrazia, attraverso quel benedetto (o maledetto) controllo che nell’era della digitalizzazione, e in questi giorni in particolare, è all’ordine del giorno di chi ogni minuto secondo è costretto a mettersi in discussione.

Eppure, la digitalizzazione si è avviata come un fenomeno essenzialmente tecnologico ammantato di libertarismo. Internet prometteva una democratizzazione della conoscenza, la possibilità di una comunicazione libera e aperta da pari a pari che sgretolava quella classica e troppo elitaria dall’alto verso il basso. Ho vissuto quel periodo fra la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo con questa visione utopica della rete come luogo libero dalle ingerenze dei governi, dei giornaloni e delle grandi corporazioni industriali e finanziarie.

Invece, sono passati appena pochi anni e sto assistendo alla metamorfosi di quel sogno libertario. Una metamorfosi al contrario, dalla leggiadra farfalla di un internet libertario al perfido bruco del potere computazionale che diventando sempre più centralistico ha demolito l’utopia. Le enormi corporazioni fanno bilanci più grandi di molti Stati nazionali e controllano la gran parte delle infrastrutture della rete orientando nuove pratiche sociali e nuove dinamiche economiche.

Nel “capitalismo della sorveglianza” il capitale e il lavoro, di marxista memoria, sono sostituiti dai dati e dal loro sfruttamento. Ma non è questo, o almeno non è soprattutto questo, che definisce il potere computazionale rappresentato soprattutto dal software che media l’accesso alle informazioni plasmando le interazioni sociali e, attraverso ciò, indirizzando i comportamenti degli utenti. Con questa logica, il software con i suoi algoritmi, diventa un dispositivo di regolamentazione e controllo, un meccanismo che, privo di disciplina legislativa, trasforma il tecno-libertarismo iniziale in una sorta di ‘tecno-totalitarismo’.

Michel Foucault, già prima dell’avvento dell’era digitale, l’aveva previsto quando diceva che “per potere non si deve intendere quello che emana da un soggetto cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del potere impersonale, onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società”. E la digitalizzazione, con le sue piattaforme pervasive che nessuno si chiede dove hanno luogo, rappresenta bene tutto ciò.

Chissà se un giorno prenderà campo la filosofia politica della redistribuzione del potere computazionale. Sappiamo di sicuro che il software non è neutro e, come tale, dovrebbe essere regolamentato, compreso e, se necessario, contrastato per preservare la “vecchia” democrazia della “nuova” società.

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