Nosferatu come simbolo delle nostre paure interiori
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Nosferatu come simbolo delle nostre paure interiori

L’attuale remake rende centrale la protagonista e parla alle donne di oggi, come già Povere creature.

Nosferatu come simbolo delle nostre paure interiori
In foto la protagonista, Lily-Rose Deep
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15 Gennaio 2025 - 13.23 Culture


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di Luisa Marini

Nosferatu, uscito da poco al cinema, si rifà al celebre film di Murnau del 1922 in cui il regista, tra i massimi esponenti dell’espressionismo tedesco, si era ispirato liberamente al famoso romanzo di Bram Stoker modificando titolo, nomi dei personaggi e luoghi per evitare problemi di copyright. Il precedente e unico altro remake del grande classico è del regista tedesco Werner Herzog, del 1979, con Klaus Kinski.

La storia è ambientata a metà dell’Ottocento, periodo in cui il mito del vampiro si impose nella superstizione popolare, nel momento in cui le credenze pagane e le superstizioni sull’occulto che resistevano in molte zone d’Europa, e la stessa religione cattolica, venivano attaccate dall’Illuminismo della Ragione.

Questo film, coproduzione tra Stati Uniti, Regno Unito, Repubblica Ceca e Ungheria, rispetto ai precedenti (Herzog, Coppola e altri) mantiene una propria identità legata alla nostra contemporaneità, pur conservando una nota serie di simbologie classiche del vampiro: in primis il sangue, simbolo ambivalente di vita e di morte e metafora di contagio; l’amore e il sesso; la morte.

Il fatto che la minaccia venga descritta dall’inizio come ombra, fino alle immagini finali, omaggio alla nota sequenza del vampiro di Murnau che sale le scale per raggiungere la vittima, rende particolarmente interessante il discorso sui simboli, e ci riporta al sentimento, reale ma incorporeo, della paura, che il Nosferatu messo in scena in questo film sottolinea con una presenza molto forte di demone, risultando immediatamente credibile per lo spettatore.

Il vampiro è il non-morto, figura leggendaria di molte culture fin dall’antichità, che indicava l’attaccamento ai piaceri della vita da cui è difficile separarsi. Presenza ambigua e ambivalente, è sia reale e ben presente, ad esempio quando assale le sue vittime, sia incorporeo in quanto incarna la morte e il timore che ne hanno i vivi. Il demone sceglie di veicolare entrambe attraverso il contagio della peste; il termine vampiro nasce infatti durante le epidemie in Europa nel corso del Settecento. Contagio è metafora anche di avvelenamento della mente, e questo agli spettatori di oggi non può non richiamare il Covid e i condizionamenti del lockdown, che hanno scatenato la paura per l’altro in quanto possibile veicolo di contagio, ma anche il suo contrario, sotto forma di solidarietà umana.

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Nonostante il titolo, la figura centrale di tutto il film risulta però essere, più del vampiro, la donna: colei che può dare la vita attraverso il proprio sangue, e che alla fine lo dona morendo per la salvezza di tutti, lei che incarna il canale di contatto con la natura e l’inconoscibile, angelicata e insieme strega, in ogni caso essere di cui diffidare.

La giovane protagonista (l’attrice è la figlia di Johnny Depp, legato a tanto immaginario del genere) fin da ragazzina ha delle percezioni di qualcosa di oscuro che la perseguita (leggibile come pulsione sessuale) e la fa vagare sonnambula in giardino. La ritroviamo sposata anni dopo a un giovane di belle speranze, che viene inviato ai confini della Boemia per far firmare il contratto di un antico maniero all’anziano e inquietante Conte Orlock. Ma il giovane viene derubato del pegno d’amore della sposa, un cuore d’argento che contiene i capelli di lei (una parte della vittima prescelta, usata come canale di connessione, come nei riti voodoo) e costretto a controfirmare il contratto di vendita della moglie al Conte. È interessante notare come, nell’Inghilterra vittoriana, esistesse davvero tale pratica, per cui marito e moglie non abbienti, per potersi separare, potevano firmare un contratto di vendita della donna – considerata come un vero e proprio bene – a un altro uomo. Di fatto era considerata una pratica illegale, su cui però le autorità chiudevano un occhio, ma per molti era l’unica chance per potersi separare dalla moglie senza sostenere costi proibitivi; pare avvenisse con il consenso della moglie, che doveva essere venduta all’asta pubblicamente al mercato dei bovini, legata simbolicamente con una corda al collo, alla vita o al polso. L’ultima vendita di questo tipo data al 1913.

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Il giovane marito è la prima preda del vampiro, e dai buchi sul corpo capisce che non è tutto frutto della sua mente alterata dalla paura; riesce a fuggire ed è salvato da alcune suore, simbolo della religione a contrasto con la superstizione. Riuscito a tornare da lei, stremato e ammalato, comprende come le visioni della moglie fossero reali e finalmente la capisce, mentre prima minimizzava superficialmente il suo sentire. Anch’egli, infatti, ha subìto una sorta di perdita dell’innocenza, anzi di più: la scena classica del vampiro che succhia il sangue, nel suo caso, sembra una vera e propria scena di stupro, e il regista annulla la differenza tra sessi che accomuna nella violenza. Del resto, la fascinazione erotica del personaggio è chiara, e qui si fa esplicito riferimento all’omosessualità.

Nel frattempo lei, ospite da amici della coppia, subisce il contenimento della sua ossessione, scambiata per isteria, in quanto donna del tempo: narcotizzata a letto, il primo rimedio che il medico le prescrive, oltre a farla legare al letto, è il corsetto. Costrizione estetica del corpo, e in questo caso costrizione ai fini del controllo, di fatto strumento di tortura, l’accessorio richiama la protagonista di Povere creature e la sua lotta alle costrizioni imposte alle donne del periodo vittoriano. Entrambe le “terapie” vengono motivate dal “troppo sangue”, che rende la donna pazza: le mestruazioni sono state considerate nei secoli fonte di disagio per il sesso maschile, sangue malato perché non fecondato, di cui avere vergogna. Gli uomini dunque la cercano di limitare in tutti i modi, perché il femminino è fonte di paura e va costretto sotto l’uomo considerato di fatto superiore, facendo saltare completamente qualsiasi scatto di comprensione umana. Quando sembra che tutto sia inutile, il medico si ricorda dell’anziano maestro, professore esperto di queste situazioni (Willem Dafoe, ultimamente uso a questo tipo di personaggi, come quello del padre scienziato in Povere creature), che sa che invece la donna va ascoltata e liberata.

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Emblematica, a questo proposito, la scena del confronto che la protagonista ha con il marito dell’amica, in cui dà voce alla propria raggiunta consapevolezza della situazione e sottolinea con forza il proprio sentire di donna libera. Il dialogo richiama le dichiarazioni della protagonista di Povere creature, che avevano toni più leggeri ma non meno efficaci e densi di significato. Come direbbe Michela Murgia, la donna che parla fa paura e va zittita, o dichiarata pazza. A farle da contraltare, il personaggio dell’amica che la ospita, la perfetta donna vittoriana dedita ai figli e al marito, bambolina tutta trine e merletti, votata alla religione come unica fonte di salvezza e completamente distaccata dal proprio sentire personale.

A una osservazione profonda della messinscena, la protagonista pare destinata fin dall’inizio a subire il confronto con l’amante fatale, narcisista e abusante, doppio negativo del marito positivo. In epoca vittoriana, la dicotomia riguardava infatti il sesso (represso anche nei più lontani riferimenti) versus amore romantico. Non a caso, il narcisista è definito in genere anche come vampiro emotivo, quasi un alter ego demoniaco del partner di Bella in Povere creature, grottesco e alla fin fine innocuo, di cui entrambe le eroine sono capaci di liberarsi.

Tutto il film, dunque, ruota intorno ai temi della paura dell’altro, che è anche paura di noi stessi e delle nostre pulsioni sconosciute, dell’inconoscibile e dello sconosciuto in quanto rifiutato, del sottile limite tra salute e follia, in cui prendiamo coscienza che la salvezza è data dal fronteggiare i nostri personali demoni: la vittoria della luce sull’oscurità.

Una curiosità: alla storia della lavorazione del film di Murnau è stata dedicata una pellicola del 2000, L’ombra del vampiro, nella quale il regista è interpretato da John Malkovich e l’attore che interpreta il vampiro è proprio Willem Dafoe.

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