Calma e sangue freddo. Anzi, gelido. È ciò che ho pensato all’indomani della vittoria di Alessandra Todde alle elezioni della Sardegna. L’ho pensato non appena si sono levati i cori trionfalistici di chi ha iniziato a proclamare che, finalmente, il vento era cambiato. Cambiato? La Todde – che peraltro mi sta pure simpatica e che, per una volta, mi pare un candidato in gamba e non una figurina – ha vinto per una manciata di voti, davvero un’incollatura, al punto che si è rischiato di dover giungere a una riconta.
D’accordo, il candidato del Centrodestra era dato per nettamente favorito e le umiliazioni subite dal Centrosinistra erano tali e tante da poter, almeno per un attimo fuggente, sentirsi vincitori. Ma il vento non è cambiato affatto. Cambierà, certo. Succede immancabilmente, prima o poi. C’è sempre un momento in cui l’elettorato, talvolta solo per noia e non per necessità, decide di voltare le spalle a chi sembrava aver sposato con entusiasmo e per sempre. Ma il vento sardo altro non è che una lieve brezza di mare.
Capisco che qualcuno abbia sperato che, siccome di mari a lambire l’Abruzzo, unica regione italica ad avere tale privilegio, ce ne sono tre – accidenti, a scuola non me l’avevano insegnato – allora l’effetto domino potesse propagarsi con forza, però pensare che l’ormai famoso campo largo avrebbe portato automaticamente a sbaragliare un campo di per sé non privo di qualche piccola crepa, mi è sembrato un azzardo da gita scolastica. Anche perché in quel campo largo ci sono più contendenti che alleati.
Mettere nella stessa coalizione Schlein, Conte, Renzi e Calenda è un azzardo peggiore di quando nel Centrosinistra ci si affidava alla sorte accogliendo tra le proprie file figure come quella di Paola Binetti, sempre pronta a impallinare i compagni di schieramento ogni volta che si presentava una questione etica. Se tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein ci sono troppi punti di contatto perché il PD non tenti un’alleanza duratura con l’M5S, con Calenda e Renzi non mi pare ci possa fare troppe illusioni: ego smisurati.
Carlo Calenda, figlio di papà, di mammà e di nonnà che si specchia nel suo ex-amicone, ora nemico giurato, Matteo Renzi, di cui ormai detesta tutto, non ha nulla che lo accomuni alla causa della Sinistra. La sua faccia, ancor più di quella di Renzi, nel comunicare l’accordo elettorale con il Centrosinistra era da funerale. Meglio perdere la speranza al primo tentativo che alimentare chimere in vista di tornate elettorali di portata superiore. La prima volta che sentii parlare Calenda, non sapevo chi fosse e le sue parole le trovai molto ragionevoli: incredibilmente, non aveva detto nulla su cui fossi anche vagamente in disaccordo. Un miracolo.
In effetti, le parole di Calenda erano talmente condivisibili da essere del tutto irrealizzabili, se non addirittura vuote. Ma, almeno, suonavano ragionevoli e condivisibili. Oggi non sono più nemmeno quello. D’altra parte, all’elettorato è bene dire sempre in modo chiaro da che parte si sta e Calenda e Renzi sono talmente poco a sinistra che l’elettore medio tende a preferirgli chi gli sta un tantino più a destra. Della serie, perché accontentarsi del facsimile? Almeno, Renzi ha quella sfacciataggine da guitto che lo rende naturalmente un po’ più simpatico e quella scafatezza da consumato uomo politico che riduce la portata di certe inevitabili cadute di tono.
Il vento, no, non è cambiato. Non ancora. Sull’intera Europa, forse sul mondo, alita un fortunale invero poco progressista, poco favorevole alle categorie fragili. È un mondo, questo, in cui si tira la giacchetta persino a Papa Francesco per aver fatto il papa e aver chiesto che le armi tacciano e aver detto che, soprattutto nel conflitto tra Ucraina e Russia, la pace richiede una soluzione ragionata, intorno a un tavolo. Anatema su questo papa che forse non ha eguali nella storia recente per la disaffezione dei cattolici ortodossi, della destra cattolica. Bisognerebbe forse risalire a Papa Giovanni Paolo I, ma il poveretto è durato troppo poco perché gli strali dei malpensanti si riversassero su di lui con la stessa veemenza con cui sferzano Francesco. Che male c’è nel chiedere che un popolo, quello ucraino, alzi bandiera bianca e si sieda all’inevitabile tavolo delle trattative? Succederà comunque, prima o poi, checché ne dica Zelensky, sempre più convinto del proprio ruolo di condottiero. Ogni volta che lo vede apparire in televisione, mia madre, nella sua ingenuità di donna d’altri tempi, mi domanda perché non si vesta in un altro modo: la sua ossessiva volontà di proiettare di sé un’immagine di uomo in armi cozza con la minima volontà di pace. Ma a stridere è soprattutto la tristezza dei numeri, con il conto dei morti in costante ascesa. Ha ragione Papa Francesco: quanto ancora bisogna attendere prima di fare l’inevitabile, ovvero trattare?
Insomma, il vento brutto soffia ancora e si mescola a quello della mediocrità. Le stesse parole di patetica circostanza espresse da Luciano D’Amico – “Ho telefonato al governatore Marco Marsilio per felicitarmi con lui e per dirgli che faremo opposizione nel bene della regione Abruzzo” – sono un impoverimento della tenzone politica, non una sua nobilitazione. Dagli USA, è arcinoto, il nostro paese tende a prendere quasi sempre il peggio. Il cosiddetto concession speech, il discorso con cui tradizionalmente in America il candidato perdente alle elezioni presidenziali ammette la sconfitta e fa i complimenti al concorrente non solo è sempre più vuoto di intenzioni – vi immaginate Trump che augura ogni bene a Biden o Biden che dice a Trump che, pur sconfitto, collaborerà con lui per fare più grande la nazione? – ma è pure molto distante dalla nostra politica, solitamente meno teatrale di quella americana. A me piacerebbe, piuttosto, vedere un candidato ammettere non tanto di aver perso quanto di essere stato incapace di guidare un movimento, un gruppo di persone, una battaglia elettorale. Insomma, fare un mea culpa sincero, non di facciata. Luciano D’Amico che dice di assumersi la responsabilità di non essere riuscito a trasmettere agli elettori la bontà del suo programma e la professionalità della sua squadra mi fa un po’ ridere. Se, fino a poche ore fa, era convintissimo di quella bontà e di quella professionalità, significa davvero un fallimento totale che sarebbe ora di rimarcare, senza giri di parole. Quando le elezioni le vince il presidente uscente, vuol dire con ogni probabilità che ha amministrato bene – qualche dubbio un governatore certo che la sua regione sia toccata da tre mari me lo instilla – oppure che il suo avversario non è stato persuasivo. E, comunque, la fretta con cui D’Amico ha comunicato di aver fatto tale telefonata mi è piaciuta poco. Bastava fare la telefonata, se davvero si sentiva in dovere di farla, e risparmiarci la manfrina di dircelo.
Alita un vento freddo e putrido, dicevamo. Ursula von der Layen si ricandida alla carica di presidente della Commissione Europea e, per riuscire nell’impresa, ha scelto di cavalcare certi slanci populisti della Destra più becera, segnatamente l’idea di deportare migranti indesiderati in paesi africani con cui l’Europa dovrebbe stringere appositi accordi. È un proposito che fa accapponare la pelle, soprattutto considerata la storia della Germania, e che, peraltro, è stato proposto dalla Gran Bretagna già fuori dall’Europa – Sunak intendeva spedire i soggetti sgraditi in Ruanda, ma la Corte Suprema ha bocciato il progetto – e pure dall’Italia, che vorrebbe parcheggiare in Albania chi sbarca sulle nostre coste senza permesso. Per smorzare un vento come quello che ha portato la von der Leyen a dire, con un sorrisino da Lady Oscar in versione sadica, “non vogliamo che certi stranieri minino i nostri valori”, ci vuole altro che un pastone politico dai sapori che cozzano.
Per ora, accontentiamoci di accettare che in Abruzzo il governatore è stato riconfermato e che, dunque, è stato promosso.
Promosso a pieni voti? No, rimandato in geografia.
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