“Sul ponte sventola bandiera bianca”, come cantava Battiato. Venerdì, dopo sei scrutini, una politica allo sbando che ha lasciato sciaguratamente il boccino in mano al kingmaker del Papeete aveva già bruciato nove candidature più o meno fantasma per il Quirinale: Pera, Moratti, Nordio, Riccardi, Tremonti, Frattini, Cassese, Massolo e, per ultima, la presidente del Senato, Casellati, immagine simbolo della debacle della coalizione di centrodestra.
Debacle morale prima ancora che politica, per il solo aver seriamente pensato di poter mandare al Colle “il tutore e la zia” della nipote di Mubarak. Come nel gioco al massacro dei dieci piccoli indiani, tra la serata di venerdì e la mattina di oggi, sabato, sono saltate una dopo l’altra anche tutte le altre potenziali candidature (Draghi, Amato, Casini, Cartabia, Severino, Belloni), frutto di una trattativa ambigua e mai trasparente tra Salvini, Conte, Letta. Una trattativa in cui Salvini e Conte hanno giocato più per tentare di salvare sé stessi e le loro barcollanti leadership che per trovare un nome su cui potessero convergere centrodestra e centrosinistra, o quantomeno la maggioranza che sostiene l’attuale governo, “senza vincitori né vinti” come auspicava Letta, il più accorto dei capi partito ma con una strategia prudente a tal punto da apparire immobile. Un disastro destinato probabilmente a scombussolare gli attuali schieramenti politici e gli assetti interni ai singoli partiti.
Finito con la resa senza condizioni della politica che ora, sventolando bandiera bianca, va a pregare in ginocchio il povero Mattarella di ripensarci e di rimanere per altri sette anni al Quirinale. Che poi, a ben vedere, è la soluzione migliore per l’Italia, quella che assicura la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi e la credibilità del nostro Paese in Europa e nel mondo, nonostante i fondatissimi timori costituzionali (così si rischia una deriva di tipo monarchico) che hanno finora spinto il Presidente uscente a fuggire il più lontano possibile.
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