Conquistare il cuore dello Stato. Sembra ormai questo, con progressiva evidente chiarezza, l’agire politico di Matteo Renzi. Per le nostre abitudini e latitudini, un cambio assoluto di “paradigma politico”. Noi, popolo sanguigno, di briganti e pugnalatori, abbiamo prodotto storicamente pastette politiche, formule alchemiche – pentapartito, esapartito, convergenze parallele, per dire; gli inglesi, popolo compassato e astenico, vanno giù secchi: o labour o tory. Con Renzi, finisce ogni stagione dell’Ulivo, ogni riferimento al berlusconismo e all’antiberlusconismo, al compromesso storico, al centrosinistra (con e senza trattino), al decentramento verso le regioni e al federalismo. Più o meno, qui affastellati, gli ultimi quarant’anni di “forma” – di forme diverse – del potere politico in questo paese. Di destra e di sinistra. Non è solo, forse anche, una questione di rottura generazionale: Renzi rimette al centro dello Stato il potere politico. Una cosa di cui s’è perduta memoria.
Niente più “corporazioni” a cui delegare in maniera esclusiva rappresentanze di interessi e con cui intrattenere turbolente relazioni finalizzate al compromesso, ai mezzucci dozzinali – magistratura, sindacati, banche, capitalismo familiare. Niente più deleghe: la crisi economica aiuta a selezionare le specie. Niente più partiti, partitini, correnti con cui spartire il bottino. Ci possono essere patti “variabili”, ma nessuna condivisione: c’è un solo partito, il suo. C’è un solo partito, lui. C’è un solo partito perché il potere politico è uno. Deve essere uno e indivisibile. Magari, Renzi non ha letto Stato e rivoluzione o i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, ma l’istinto predatorio è quello. Un pugno d’uomini e donne senza arte né parte, animati da passione e ambizione che, con l’aiuto di qualche più avveduto consigliori, partono dalla provincia alla conquista del paese: a modo suo, un’impresa.
A Renzi interessa relativamente chi amministra regioni e città, se qualcuno della propria filiera – meglio, certo – o una testa calda che chissacosa si pensa d’essere. Quello che a lui interessa è il potere centrale dello Stato. Solo che il cuore dello Stato – quello che orribilmente cercavano di colpire i brigatisti o che, icasticamente, fece dire a Pietro Nenni al tempo del primo centro-sinistra: «Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni, ma non l’ho trovata» – non è mai esistito qui. Non è mai esistito dal dopoguerra a oggi. Troppo duraturo era stato il fascismo, troppo orrore. E soprattutto: troppo era piaciuto agli italiani.
L’Italia del dopoguerra fu costituzionalmente basata su una logica di pesi e contrappesi, di promozioni e divieti, che ne impedissero qualunque coagulo di forza. Disperdere il potere pubblico, spezzettarlo, condividerlo – era d’altronde un’Italia a metà, in un mondo diviso a metà – era l’imperativo categorico. Non fummo soli in questo: il dibattito tedesco intorno la nuova costituzione fu straordinariamente elevato, preoccupato, colto, attraversato dal senso della colpa. E pure noi, che il senso di colpa non sappiamo bene cosa sia, non fummo impuniti, come di solito: l’Italia venne configurata come un puzzle di autonomie – basterebbe pensare a quello che riuscì a strappare la Siclia, miserevolmente sprecato – e di differenze. A modo suo, nei vent’anni di confino, di espatrio e di isolamento, ogni parte politica aveva pensato l’Italia che sarebbe stata per rendersi conto presto che non sarebbe mai potuta essere a propria immagine e somiglianza. Erano più importanti i confini, a quel punto, i limen tra le parti. Sarebbero stati questi confini, i luoghi della scoperta e dell’edificazione della democrazia e della partecipazione, per un popolo che non aveva mai tagliato la testa a un re. Non che mancasse il potere sulle cose, ma sarebbe stato penultimo, mai l’ultimo.
È con la caduta del muro di Berlino che cambiano le cose. Che davvero comincia a configurarsi una possibilità di uno spazio politico europeo. Noi italiani perdiamo il treno, lacerati da Tangentopoli e dalla guerra alla mafia, richiusi perciò in noi stessi. Quando ne usciamo fuori, l’Europa è già configurata – e noi possiamo solo che accodarci, per non restarne tagliati fuori. E è con la crisi economica che si riaprono i giochi sul ruolo dell’Europa. Renzi appartiene alla generazione dell’Erasmus politico – gli Tispras, gli Iglesias, gli Jens Weidmann, i Manuel Valls, i Pedro Sánchez, gli Albert Rivera, conservatori o riformisti, alternativi o uomini d’ordine, ma tutti consustanzialmente europei. Europei senza pensarci. È la prima volta che l’Europa ha una generazione politica europea, cresciuta dentro l’idea d’Europa.
Non sappiamo se vincerà, se succederà. Sappiamo però che a ciascuno di loro è chiarissimo che se non conquistano, se non riconquistano la sovranità statale, la centralità dello Stato, lo spazio politico europeo è solo una dimensione dello spirito e una pratica da folletti di Bruxelles. Se non ricostruisce lo Stato, la sovranità e il potere di decidere nel suo paese, Renzi sa di non contare nulla. Deve comandare in casa per contare in Europa. A nessuno, a Berlino o a Bruxelles, passa per l’anticamera del cervello di cambiare, per dire, il governo francese: quello italiano, sì, dalla sera alla mattina, è già successo e più di una volta.
L’autonomia del politico – categoria che diversi dei miei venticinque lettori riconosceranno facilmente tra i propri attrezzi concettuali – diventa perciò il percorso di ricostruzione della sovranità statale italiana. Non può esserci patteggiamento con l’autonomia giudiziaria – questa sarà una guerra all’ultimo sangue, ne resterà solo uno –, quella sindacale del lavoro, quella del denaro, non può esserci una prima inter pares. O la politica riconquista il suo ruolo centrale del potere di decidere, o saremo strangolati dalla crisi e dalle decisioni altrui – che puntano a scaricare gli effetti della crisi sui propri vicini. Nella gestione della crisi – una emergenza quotidiana – il ruolo dello Stato nazionale è tornato centrale.
È evidente che se c’è un grano di sale nelle cose dette fin qui, il risultato delle prossime elezioni amministrative interessa relativamente Renzi, la cui battaglia campale sarà piuttosto il referendum costituzionale d’autunno. Se supererà quello, si potrà poi votare per le politiche, finalmente. Parte con un doppio vantaggio, l’assenza di quorum, e il fatto che in cuor proprio ciascuno sa che della “costituzione più bella del mondo” se n’è già fatta carta straccia, strame: lui sarà l’uomo del rinnovamento, dell’adeguamento, e gli altri quelli che difendono, passatisticamente, un’idea bella ma morta e sepolta. Cosa può venir di peggio? Stiamo lentamente affondando nelle sabbie mobili – questo è proprio chiaro a tutti. La difesa dell’esistente ci lascia in balia delle corporazioni, delle manovre finanziarie contro di noi, della prepotenza di questa o quella rappresentanza.
Non subisco alcuna fascinazione da Renzi – mi sa che tocca dirlo –, anche se ho un debole per “le imprese”. Non sono sufficientemente leninista per amare la presa del Palazzo, né abbastanza gramsciano per credere che un “Principe” – un soggetto, una classe – sia il salvamento. Non sono perciò indifferente alla campagna d’autunno o al suo esito, ma non trovo mie ragioni né nell’una parte né nell’altra. Renzi è un pericolo. Non per la democrazia, le nostre belle istituzioni, che sono già sfaldate, prive di forza, snervate di coscienza. Questa è bella retorica. Renzi è un pericolo per molti, troppi privilegi. Per molte, troppe “famiglie”. Io non faccio il lavoro per loro.
Però, ecco, con Renzi, contro Renzi, il dibattito, la riflessione, la resistenza, la battaglia ritornano a avere un connotato immediatamente “politico”. Della forma del vivere associato.
Il “filosofico” che ci ha accompagnato nella nostra lunga camminata nel deserto – il biopolitico, il comune, l’esodo – lasciano il posto alla regina madre di tutte le battaglie: o centralità dello Stato o indipendenza, o centralità dello Stato o repubblica. Secco. Wo aber Gefahr ist, waechst das Rettende auch. Dove c’è il pericolo, cresce la salvezza.
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