Gli scheletri nell'armadio della brutta politica italiana
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Gli scheletri nell'armadio della brutta politica italiana

Un pezzo scritto da Dino Frisullo nel 2001 ci spiega perché oggi la politica che piange sui morti e cerca soluzioni ci fa davvero pena.

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20 Aprile 2015 - 20.58


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Leggendo questo pezzo di Dino Frisullo, datato 2001 viene da pensare al vero scandalo della nostra politica che da venti anni fa finta di piangere e invece è indifferente. Leggete e giudicate.


20 Giugno 2001

IL NAUFRAGIO DELLA NOTTE DI NATALE

Scheletri nell’armadio del governo amico di Dino Frisullo

Loro malgrado quei naufraghi hanno scritto una pagina di storia. Storia minore, scomoda e rimossa, che rischia di scivolare via sull’onda dello scoop giornalistico, che rivestirà quei corpi di effimera carta nella doppia sepoltura del mare e del cinismo.

Vorrei raccontarla per chi non considera la memoria un lusso.
In quell’inverno del ’96 gli amici e i parenti dei naufraghi, anch’essi clandestini, erano in sciopero della fame “per il diritto di esistere” in piazza Colonna. La notizia del naufragio rimbalzò in un attimo fra due continenti a partire dalle frasi smozzicate dei superstiti, detenuti dai trafficanti in un’isola greca.Nella comunità pakistana, a cui apparteneva la maggioranza delle vittime, andarono in corto circuito i mille fili di complice omertà che coprono chi specula sul proibizionismo di stato. Le famiglie si organizzarono. Il loro rappresentante, l’anziano Zabiullah che aveva perso un figlio su quella nave, a rischio della vita ricostruì insieme a noi, in Grecia e poi in Italia, la catena del traffico, fino alle squadre che in Italia recludono gli immigrati per ottenere sin l’ultimo spicciolo pattuito.
Ne emerse (e fu pubblicata anche su Narcomafie) la fotografia della catena imprenditorial-criminale, con testa turca, armatori greci e tentacoli protesi dai villaggi del Kurdistan e del subcontinente indiano fino alle coste italiane, che mercifica i fuggitivi dalla miseria dell’India e del Pakistan e dalle guerre del Kurdistan, dello Sri Lanka, del Kashmir.

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Quei nomi, quelle mappe, insieme al rosario amoroso delle foto dei naufraghi, giunsero nelle mani del giudice Billet a Reggio Calabria, dov’era sotto sequestro (e c’è ancora) la nave assassina Iohan, tornata come nulla fosse con un altro carico umano. E fu individuato con una certa precisione, con la deposizione del giovane superstite Shaqur, il luogo in cui nei giorni scorsi è sceso il batiscafo di Repubblica. Prese avvio l’inchiesta, passata poi a Siracusa, quando scovammo, in un angolo di cronaca nera, la notizia di un cadavere ripescato presso Gela.

La nostra ricostruzione coincideva con quella fatta – dal gennaio ’97 in poi – da Livio Quagliata e altri giornalisti su Il manifesto.
L’ambasciata pakistana si mosse; quelle dell’India e dello Srilanka no, o almeno non subito, perché quei morti erano rispettivamente sikh e tamil, concittadini scomodi. Profughi, che avrebbero avuto diritto all’asilo – se esistesse in Italia una legge sull’asilo.

Alcuni dei naufraghi, come i due parenti del leader pakistano a Roma Shabir Khan, avevano in tasca la ricevuta della richiesta di soggiorno in base al “decreto Dini”, la semi-sanatoria di quegli anni. Stanchi di attendere, colpiti da lutti familiari, erano andati a casa e rifacevano il viaggio della speranza. Déja-vu, nevvero? penso ai trentamila che da tre anni ancora attendono il soggiorno, negato dall’ultimo governo di centrosinistra…

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Fu alla porta del primo centrosinistra, in quell’inverno del ’97, che bussammo insieme a Zabiullah, a Shabir Khan e ai tamil giunti da Palermo. Forse ingenui (gli immigrati non avevano festeggiato anche loro, danzando in piazza Venezia, la fine del governo Berlusconi-Gasparri?), chiedevamo il recupero della nave e del suo carico umano, ma anche un ripensamento delle politiche di chiusura.Restammo di sasso. Dal Viminale alla Farnesina, ad eccezione di pochi singoli parlamentari, trovammo una totale assenza non dico di solidarietà, ma di umana pietà. Ammettere la strage equivaleva a rimettere in discussione la linea della fermezza, che di lì a poco avrebbe colpito e affondato la Kater I Radesh. Data da allora il disamore per l’esperienza governativa di centrosinistra, non certo condiviso da tutto quello che allora si definiva movimento antirazzista. Ci presero per pazzi e “acchiappafantasmi” non solo ministri e sottosegretari, ma anche i rappresentanti dell’associazionismo che affollava le anticamere del “governo amico” di Napolitano e Livia Turco.

In quel momento, con i trafficanti messi in mora e denunciati dalle vittime, con un’opinione pubblica non ancora resa xenofoba, con un governo ai primi passi, quei poveri corpi riemergendo avrebbero potuto motivare una scelta coraggiosa: una nuova politica dell’immigrazione e dell’asilo, che sostituisse legalità e certezza del diritto all’illegalità, alla soggezione, alla morte.Non fu così. Furono abbandonati al loro strazio quei corpi ed i loro parenti, come rimasero soli i loro amici appena più fortunati, nel gelo di piazza Colonna e nella marcia di Natale ’96, in diecimila a digiuno fino al Vaticano.

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L’inchiesta proseguì stancamente, senza risalire la catena assassina oltre gli ultimi esecutori, senza discendere nel mare di Sicilia.Ora gli scheletri riemergono. Ciascuno guardi nel suo armadio”.

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