“Porcellinum”, “Maialinum”, “mini Porcellum” o “Porcellum 2”, “Caimanum”, “Pregiudicatellum”: qualsiasi nomignolo i commentatori della stampa nazionale gli abbiano affibbiato, l’“Italicum” – la proposta di legge elettorale, maturata al Nazareno durante li controverso incontro del 18 gennaio tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, e poi modificata con un secondo accordo tra i due lo scorso 28 gennaio – è parsa al mondo cattolico una riedizione della Legge Calderoli. In sostanza, un’altra “porcata”, per certi aspetti più antidemocratica e incostituzionale della precedente.
Certo, qualcuno avrà pure salutato con favore lo spregiudicato interventismo del neosegretario Pd che, dopo 8 anni di chiacchiere e connivenze, sembra essere riuscito a centrare l’obiettivo di modificare la legge “porcata” di Calderoli. Ma di fronte alla clausole dell’accordo, anche le posizioni più ottimistiche sembrano essere definitivamente venute meno. Tre, principalmente, i nodi indigesti del provvedimento: la soglia di sbarramento all’8% (4,5% in coalizione), voluta dai due leader per escludere dallo scacchiere politico i “fastidiosi” partitini, considerata profondamente antidemocratica perché lascerebbe un’ampia fetta di popolazione italiana priva di rappresentanza parlamentare; il premio di maggioranza, assegnato alla coalizione che raggiunge la soglia del 37% al primo turno o che si aggiudica il secondo turno, secondo la logica del “chi vince prende tutto”; infine il veto posto da Berlusconi – accolto da Renzi – sulle preferenze: con il pretesto di evitare il voto clientelare, soprattutto nelle Regioni meridionali dove le preferenze vanno per la maggiore, si è delusa la principale aspettativa degli elettori, che con le preferenze credevano di salutare una volta per tutte i “Parlamenti dei nominati”, spesso composti da “impresentabili”, amici, parenti, amanti, avvocati, matusalemme dei vecchi partiti e soggetti considerati incompetenti e poco interessati a perseguire il bene comune. Deludente anche l’omissione di una clausola che obblighi i partiti a consultare gli elettori con delle primarie per la formulazione delle liste bloccate. E così, il mito della renziana “politica del fare” comincia ad incrinarsi di fronte all’ipotesi che forse è meglio non fare che fare male.
In barba alla Costituzione
La proposta in campo deve essere «respinta», afferma il presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione Raniero La Valle il 24 gennaio sul suo blog (ranierolavalle.blogspot.it). Innanzitutto, «in via di principio va dato un segnale di irricevibilità di una proposta di assetto istituzionale ideata col concorso determinante di una personalità politica in stato di interdizione dai pubblici uffici». E non si tratta, chiarisce, di uno scrupolo morale: l’interdizione non è «una misura vendicativa volta ad infierire sul colpevole, ma è una misura di prevenzione a beneficio della collettività perché essa non sia esposta ai rischi prevedibili provenienti dall’esercizio di funzioni pubbliche da parte di quel condannato».
In secondo luogo, la riforma pensata da Renzi e Berlusconi «è causa ed incentivo di sempre più gravi sconvolgimenti democratici», per le soglie di sbarramento a partiti e coalizioni, per i premi di maggioranza, e per l’introduzione dell’ambigua clausola “salva-Lega”. Con buona pace della Corte Costituzionale, afferma, «oggi viene presentata come un meraviglioso risultato di efficienza una proposta di legge elettorale che riproduce esattamente tutti i vizi di incostituzionalità» del Porcellum.
La Valle non ha dubbi: occorre «restituire alle urne il vero e primario compito di esprimere la rappresentanza» e questo obiettivo non può che realizzarsi se non con il sistema proporzionale, «senza premi di maggioranza e sbarramenti innaturali che sommandosi insieme devastano il Parlamento trasformando le elezioni in una successione ereditaria, e addirittura per nomina, dalle vecchie alle nuove nomenclature degli stessi partiti già insediati nel sistema». Senza ricorrere a truffe istituzionali, «il compito della governabilità deve ricadere sulla politica, e in particolare sui partiti che a ciò sono deputati dalla Costituzione». È il partito, in definitiva, il luogo principale della riforma: «Spostare l’accento dalla governabilità per via di artifici elettorali alla governabilità per via politica, significa aprire una fase di ricostruzione e rivalutazione dei partiti».
In un commento pubblicato il 30 gennaio sul sito di Economia Democratica, La Valle ha così denunciato: «Solo con un diritto illegittimo, che trasforma una minoranza nell’unica forza dominante in Parlamento, a fronte di un’opposizione ridotta di numero e resa impotente, si può realizzare il progetto di un capo populista della destra che diventa padrone di tutto lo Stato». L’Italicum, dunque, mantiene in vita la stessa logica incostituzionale del Porcellum. E lo stesso vale per il trattamento delle minoranze: «Infatti esso pretende che i partiti che confluiscono in una coalizione perdano qualsiasi identità ed autonomia: essi devono avere lo stesso programma del partito maggiore, lo stesso capo (anche se interdetto?) e se non superano una certa soglia di voti non hanno diritto ad entrare con propri rappresentanti in Parlamento». Sbarramenti e premio di maggioranza renderebbero «del tutto sproporzionato, contro la sentenza della Corte, il rapporto tra voti conseguiti e seggi assegnati, alterando irrimediabilmente la rappresentanza». Il giudizio di La Valle è perentorio: «La nuova legge elettorale distrugge il pluralismo politico, e cioè lo specifico della democrazia; non solo toglie i cespugli, cioè, come dice Renzi, libera i partiti maggiori dal “ricatto dei piccoli partiti”, ma toglie tutti gli alberi del bosco lasciandone solo uno a dominare il deserto e un altro, mutilato e umiliato, a riceverne l’ombra come parte di un unico sistema».
Illegittimo maquillage
«Una riformulazione della vecchia legge elettorale», che presenta tra l’altro gli stessi vizi di incostituzionalità che hanno portato alla sentenza del 4 dicembre scorso. È quanto affermano anche i Giuristi Democratici, i Comitati Dossetti e l’Associazione per la democrazia costituzionale, nell’appello “Italicum peggio del Porcellum, fermatevi”, pubblicato nelle pagine del manifesto lo scorso 26 gennaio. In primo luogo, il premio di maggioranza «rende insopportabilmente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del principio di rappresentanza lamentata dalla Corte: il voto del 35% degli elettori (ora 37%, secondo l’ultima versione dell’accordo Berlusconi-Renzi, ndr), traducendosi nel 53% dei seggi, verrebbe infatti a valere più del doppio del voto del restante 65% degli elettori». In secondo luogo, il rifiuto delle preferenze riconsegna alle segreterie dei partiti la designazione dei candidati, sebbene in liste più corte. «Viene così ripristinato lo scandalo del “Parlamento di nominati”; e poiché le nomine, ove non avvengano attraverso consultazioni primarie imposte a tutti e tassativamente regolate dalla legge, saranno decise dai vertici dei partiti, le elezioni rischieranno di trasformarsi in una competizione tra capi e infine nell’investitura popolare del capo vincente». Se a tali vizi si aggiungono anche gli sbarramenti, questo «comporterà la probabile scomparsa dal Parlamento di tutte le forze minori, di centro, di sinistra e di destra e la rappresentanza delle sole tre forze maggiori affidata a gruppi parlamentari composti interamente da persone fedeli ai loro capi». I firmatari – tra gli altri, Stefano Rodotà, Domenico Gallo e lo stesso Raniero La Valle – invitano ad aderire inviando una email a: perlademocraziacostituzionale@gmail.com.
La rivincita
È del 22 gennaio il commento “Ecco tutti i rischi d’incostituzionalità” di Marco Olivetti su Avvenire. In terza pagina l’autore afferma che le decisioni politiche possono essere lette sia ex parte principis, sia ex parte populi. Sotto il secondo punto di vista, afferma, «così come stanno le cose, il giudizio non può essere positivo». Per raggiungere l’obiettivo di trovare subito un vincitore delle elezioni, «si accettano distorsioni fortissime della rappresentanza, non molto diverse da quelle operate dal Porcellum e colpite dai dardi dell’incostituzionalità, in quanto lesive del principio di rappresentatività, radicato, in ultima analisi, nell’eguaglianza del voto. Soprattutto, viste ex parte populi, le liste bloccate corte appaiono inaccettabili: esse sono un modo per aggirare il vincolo posto dalla Corte costituzionale (ed invero non poco discutibile in punto di diritto), che ha chiesto la “controllabilità” della propria scelta da parte dell’elettore, a tutela della sua libertà di voto». Che si tratti di una rivincita della politica sul diritto costituzionale?, si domanda il giornale dei vescovi. Il giudizio resta negativo, conclude l’autore, «ma le bozze sono tali proprio perché possono essere migliorate».
Errori e opportunità
«Le Acli fin dall’introduzione del Porcellum, hanno sostenuto che non fosse una legge elettorale degna di un Paese democratico». È quanto si legge in un documento sulla riforma elettorale approvato dalla Direzione nazionale delle Acli il 22 gennaio scorso. «Per le Acli risulta difficile immaginare che nel nuovo sistema elettorale possano essere introdotti meccanismi che in qualche misura riecheggino quelli censurati, non fosse altro per il fatto che essi sono risultati contrari alla Costituzione». La Direzione delle Acli parla di «una sproporzionata distorsione del consenso» introdotta dal premio di maggioranza e di elezione dei candidati totalmente svincolata dal voto degli elettori, a causa delle liste bloccate. Il giudizio è tranchant: «Le Acli ribadiscono che un sistema elettorale, in nome della governabilità, non può generare effetti marcatamente distorsivi del consenso, pena la violazione patente del diritto di voto e, dunque, della radice stessa del sistema democratico». Le Acli rilanciano poi un sistema elettorale con piccoli collegi, liste corte e preferenze, «perché ciò costringerebbe i partiti a scegliere candidati radicati sul territorio e assicurerebbe il rispetto del pluralismo delle culture interne al partito, oltre alla parità di genere». E non escludono nemmeno la possibilità di inserire «un incentivo alla stabilità» al massimo del 10%, «che consentirebbe anche al partito/coalizione che non avesse la maggioranza assoluta di essere un polo stabile di aggregazione di maggioranze parlamentari».
Da ritoccare anche il sistema di sbarramento, «troppo alto per i partiti che scelgono di non coalizzarsi». La soglia va abbassata, anche per porre dei limiti «al partito “pigliatutto” e al “pensiero unico” prevalente in un particolare momento storico». Di fronte al tracollo della fiducia, cha ha investito trasversalmente partiti e istituzioni politiche, le Acli concludono affermando che le scelte da operare, «oltre che gli eletti, dovranno rafforzare gli elettori», restituendo loro il controllo sul processo politico. «Per tali ragioni la riforma elettorale non deve essere solo un esercizio d’ingegneria costituzionale utile a dare stabilità ai futuri assetti di governo. È fondamentale che questa sia avvertita come un’opportunità affinché i partiti si riapproprino della loro capacità di rappresentare la società e le esigenze dei ceti medi e popolari, ormai da troppo tempo sacrificate alla logica della partitocrazia, ad un potere politico svincolato da qualsiasi indirizzo concreto di origine popolare che, amplificando sentimenti di antipolitica che sono sempre sottotraccia, ha favorito la nascita e la crescita di movimenti (e non partiti) di carattere populista».
Giampaolo Petrucci, Adista
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