Il collasso della classe dirigente del Pd

Un lungo (lunghissimo) saggio di Walter Tocci, presidente del Crs e senatore del Pd. Prendendo spunto dalle riflessioni di questi giorni, parla della crisi della sinistra italiana.

Il collasso della classe dirigente del Pd
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7 Maggio 2013 - 16.38


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di Walter Tocci

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Ho vissuto in diretta il collasso della classe dirigente del Pd. Una delle esperienze più amare della mia vita da militante. Se ne può discutere su quattro piani diversi:

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1. Sul piano personale è una sofferenza parlare e agire contro la propria parte a causa di un grave dissenso. Non si fa a cuor leggero. Nel mondo antico da cui provengo la disciplina non era un vincolo regolamentare ma un atto spirituale: il senso nobile di sacrificare il proprio punto di vista a favore di un pensiero collettivo che si fa azione; anzi di più, una terapia antinarcisistica che regala la forza di trovarsi spalla a spalla coi compagni di lotta. Tutto ciò è irripetibile nel mondo banale di oggi. Ed è patetico ridurre l’accaduto all’indisciplina dei parlamentari, che nel caso delle elezioni al Quirinale è costituzionalmente protetta dal voto segreto e storicamente manifestatasi in tutti i casi, con l’unica eccezione di Cossiga non a caso il peggior presidente.

2. Sul piano più distaccato dell’analisi forse l’evento diventerà un case-study della teoria politica su come si suicida lo stato maggiore di un partito. Jared Diamond1 ha classificato le forme di Collasso dei popoli nei diversi continenti ed epoche, soffermandosi in particolare sull’analisi della civiltà dell’isola di Pasqua, caratterizzata dallo splendore delle sue grandi sculture, che scomparve improvvisamente dalla storia. Si trattava di una comunità chiusa e divisa dall’inimicizia tra diversi clan. La tensione tra la forza divisiva interna e la forza centripeta che veniva dalla chiusura con l’esterno sprigionò un’energia autodistruttiva. La somiglianza col PD è inquietante, speriamo che l’esito sia diverso.

3. Sul piano politico si è intaccato il legame di rappresentanza del parlamentare con gli elettori. Fare il governissimo avendolo escluso prima e dopo il voto è una frattura che richiederà tempo per essere sanata. Vorrei andare per strada e fermare le persone per chiedere “Ma lei mi ha votato? Ne possiamo parlare per ritrovare la fiducia?”. Mi fa cadere le braccia il neoluddismo, perfino da parte di nostri giovani dirigenti, che attribuisce il dissenso alla frenesia virtuale della rete, scambiando il dito col cielo. Non diciamo sciocchezze, erano i nostri elettori in carne ed ossa che ci chiedevano di non farlo.

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4. Sul piano storico, infine, l’evento avrà conseguenze di lungo periodo ancora imprevedibili e si colloca nell’intersezione tra diversi cicli politici in via di esaurimento: il fallimento della Seconda Repubblica, lo sfinimento della generazione postcomunista e cattolico-democratica, la crisi dell’Europa di Maastricht, l’indebolimento del trentennio liberista. Siamo ancora dentro i fatti, ma quando ne avremo conquistata la consapevolezza ci accorgeremo che è stato un evento storico poiché intreccia i fili del passato e proietta interrogativi sul futuro.

Nel presente mette in luce una verità più amara. La sinistra italiana si trova oggi al minimo storico nella capacità di influenza sulla vita nazionale, sulla politica, sugli assetti sociali e sugli orientamenti culturali. Mai nella storia repubblicana la sua rilevanza era stata tanto scarsa, neppure nei momenti più difficili. Si dice spesso che la sinistra è sempre stata minoranza, ma si dimentica di aggiungere che proprio in quanto tale ha saputo condizionare le classi dominanti, soprattutto nell’epoca giolittiana e nella Prima repubblica, attraverso i movimenti sociali, la produzione culturale e la rappresentanza politica. Quando è mancato questo contrappeso il Paese ha sbandato nell’avventura, prima nella tragedia della dittatura fascista e poi, in regime democratico, nel suadente sovversivismo berlusconiano. Senza questa benefica minoranza l’Italia esprime il suo lato oscuro.

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Mi torna in mente una vecchia canzone di Aznavour che diceva: “Com’è triste Venezia senza di te”. Così, l’indebolimento dell’altra Italia ha favorito la peggiore Italia. Lo squilibrio ha contribuito alla decadenza della creatività, all’involgarimento dello spirito pubblico, al dilagare dell’illegalità, alla mancanza di futuro. Con questo senso di responsabilità nazionale dobbiamo mettere a tema il rinnovamento della sinistra dopo il collasso della sua classe dirigente.

L’evento

Se l’evento è tanto importante cominciamo col ricostruirne la cronaca. Il Pd entra in campagna elettorale pensando di aver già vinto e puntando ad amministrare il risultato, come la squadra che segna un gol al primo minuto e fa catenaccio per tutta la partita. Il messaggio elettorale è debolissimo, rivolto per lo più verso Monti e le cancellerie europee, senza alcuna consapevolezza della tempesta che viene a sconvolgere le dinamiche elettorali. A urne aperte la sconfitta politica, prima che elettorale, non viene ammessa e si prosegue con lo schema già previsto in caso di vittoria, cioè la candidatura di Bersani alla guida di un governo del Pd e della sua coalizione, come se non fosse successo nulla. È la madre di tutte le successive scelte sbagliate. Mi rimarrà sempre nella memoria il gelo che sento intorno a me nella riunione della direzione post voto mentre dico apertamente al segretario che è un errore. Almeno la metà di quella sala era in disaccordo con il segretario, ma non lo dice, con un’ipocrisia che anticipa già l’esito perverso dei 101. Se si fosse scelto subito il governissimo non lo avrei condiviso, ma sarebbe stata una linea politica chiara, ci saremmo risparmiata la figuraccia successiva e tutto sommato lo avremmo fatto in condizioni di forza.

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Il tentativo di costituire un governo di minoranza al Senato si arena di fronte al rifiuto di Napolitano, che interviene già nel merito manifestando la sua preferenza per l’accordo PD-PDL. In quel momento Bersani dovrebbe esplicitare il dissenso col Presidente e candidare un’altra personalità di sinistra, ma purtroppo accetta un’ambigua ricognizione che si risolve in una perdita di tempo. Quando si inverte l’agenda il Pd propone il doppio binario di un’ampia condivisone per la scelta del Quirinale e di un “governo di combattimento”. Ma è una linea politica inconsistente che conferisce un enorme potere contrattuale a Berlusconi, il quale, mostrando una sapienza tattica di gran lunga superiore a quella dei nostri dirigenti, dichiara apertamente di accettare l’accordo sul presidente solo se può condizionare il governo. I due binari non esistono, e una volta presa quella direzione si consegna all’avversario la soluzione del problema, pur continuando a infuocare la base contro il governissimo, fino a pochi giorni prima del voto con il comizio di Bersani a Corviale. Si aggiunge l’errore di presentare una rosa di nomi a Berlusconi che sceglie Marini, il quale, dopo l’insuccesso, ha onestamente riconosciuto in un’intervista che la sua elezione avrebbe consentito un’intesa “a bassa densità” col Pdl per il governo, cioè una versione camuffata del governissimo. Nell’assemblea dei Gruppi a bocciare il candidato è quasi la metà dei parlamentari, tra voti contrari, astenuti e altri che lasciano la seduta. Viene risposto picche anche a chi propone una pausa di riflessione e si va avanti in modo irresponsabile verso il primo fallimento.

Presi dal panico i dirigenti ribaltano la linea politica e scelgono la candidatura di Prodi che viene acclamata in assemblea e bocciata nel voto segreto. I 101 non sono parlamentari indisciplinati, ma un pezzo del gruppo dirigente che ha imposto il ritorno all’intesa col Pdl, senza assumersene la responsabilità a viso aperto. L’esito finale della delegazione contrita al Quirinale e del governo organico tra Pd e Pdl per molti esponenti del Pd non è stato un incidente, ma la politica che desideravano sin dall’inizio, come si vede dalla soddisfazione ostentata da molti in questi giorni. La gravità della vicenda non è formale ma sostanziale. I franchi tiratori ci sono sempre stati nelle elezioni presidenziali, ma non era mai accaduto che la dirigenza di partito utilizzasse quel momento per imporre alla propria gente il ribaltamento della proposta elettorale, senza avere neppure il coraggio di dichiararlo. Questa non è una questione di regole, ma è il collasso della classe dirigente. Non si può guidare un partito senza assumersi la responsabilità delle proprie scelte. È un’abdicazione senza onore.

Si poteva evitare?

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Bastava proseguire col metodo vincente usato per l’elezione di Boldrini e Grasso. Bisognava rinunciare a candidare Bersani, aprire ad una personalità di sinistra per il governo e ad una figura di prestigio al Quirinale per restituire fiducia ai cittadini. Si dice che Rodotà non andava votato sotto la pressione della piazza; dovremmo piuttosto chiederci perché non siamo stati capaci di proporlo prima che lo facessero gli agitatori. Avremmo ribaltato la partita, stringendo Grillo in una morsa: portare voti al nostro candidato oppure perdere quelli del suo elettorato. La stessa candidatura di Prodi presentata in anticipo avrebbe potuto ottenere consensi più ampi anche oltre il Pd. Entrambe queste figure avrebbero creato un clima favorevole al governo di cambiamento che per due mesi abbiamo inseguito solo a parole. Per la prima volta nel Parlamento italiano avremmo avuto i numeri per approvare leggi del tipo conflitto d’interessi e reddito di cittadinanza per i giovani. Il Pd sarebbe stato protagonista del superamento della Seconda Repubblica invece della sua ibernazione. Si è persa una occasione storica.

Ho ricevuto due obiezioni a questo ragionamento. La prima riguarda la necessità di una “pacificazione”, tema in voga tra gli editorialisti dell’establishment. I partiti che dovrebbero appacificarsi, oggi, rappresentano meno della metà degli elettori aventi diritto: circa 16 milioni su 46 totali, e le rispettive coalizioni ne hanno persi circa 10 milioni. Più della metà del popolo italiano ha negato la fiducia al sistema politico nel suo complesso. In questo clima, qualsiasi intesa tra Pd e Pdl non solo non garantisce coesione nazionale, ma esaspera ulteriormente la frattura tra i cittadini e la politica.

Dal voto è uscito un sistema tripolare e c’erano quindi non una, ma due vie di “pacificazione”, o verso il passato per chiudere la conflittualità del bipolarismo oppure verso il futuro per riconciliare istituzioni e popolo. La scelta della prima strada viene naturale se si ragiona con lo schema del ceto politico. Per la seconda ci voleva coraggio nello sporgersi sull’abisso del rancore e della protesta per sortirne con la politica. I nostri dirigenti sono rimasti prigionieri del frame imposto dall’avversario e non sono riusciti a Non pensare all’elefante, il titolo del libro di George Lakoff che spiega la subalternità della sinistra2.

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La seconda obiezione riguarda l’irresponsabilità di Grillo, come se avessimo già dimenticato quella di Berlusconi. Sento dire da sinistra che il comico sarebbe un reazionario e posso anche consentire. Però, chi come noi viene da una grande scuola non può dimenticare che nei terribili anni trenta nelle Lezioni sul Fascismo Togliatti invita i militanti a prendere contatto con i lavoratori organizzati dai sindacati di regime al fine di sottrarli alla retorica di Mussolini. Molto più agevolmente si può dialogare con milioni di elettori Cinque Stelle che prima votavano per noi. Mi sono fatto l’idea che sarebbe molto facile battere Grillo, metterlo in difficoltà con un’iniziativa incalzante, come non si è mai fatto finora. Non servivano né gli sterili strali né le poco dignitose sedute in streaming. Dovevamo mettere in discussione noi stessi per incuriosire il suo elettorato. Presentarsi con il nostro leader battuto alle elezioni, invece, ha consentito al demagogo di rinserrare il suo popolo.

Le cause dell’evento

Lo studio di Diamond spiega che il collasso è un evento improvviso, ma preceduto da una lenta incubazione. Nel nostro caso, sarebbe lungo cercare a ritroso le ragioni della sconfitta della sinistra. In un libro che cerco di scrivere tra gli affanni di questi mesi le ho ritrovate addirittura negli anni sessanta, sono ancora più evidenti nell’ultimo ventennio, ma qui per brevità mi limito agli anni del PD.

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Questo partito era stato pensato come strumento per chiudere la transizione italiana e battere il berlusconismo. Perché ha fallito l’obiettivo? Tanti motivi soggettivi sono evidenti, ma voglio soffermarmi sulle cause più profonde. I referendum hanno spesso segnato le fratture tra politica e società, da quello sul divorzio a quello sulla preferenza unica. Ma è incredibile come siano stati rapidamente dimenticati i più recenti. Nel 2006 e nel 2010 quasi trenta milioni di italiani hanno salvato la Costituzione dallo sfregio di Calderoli e hanno colto l’occasione dell’acqua per affermare il primato dei beni comuni. Al di là del merito tecnico dei due quesiti emergeva una nuova sensibilità popolare che poteva essere mobilitata per liberarsi dall’egemonia della destra. Gli elettori si mobilitarono senza trovare una guida nei dirigenti del Pd, i quali vissero con fastidio quelle vittorie cercando di archiviarle prima possibile. E invece sarebbero state le occasioni per cancellare i falsi miti della Seconda Repubblica.

Il referendum costituzionale archiviava la retorica delle riforme istituzionali, cioè il pupazzo di pezza che tiene impegnato un ceto politico sempre più distratto dai problemi reali del Paese. La priorità nazionale ormai è diventata il superamento del bicameralismo per accelerare l’attività legislativa, mentre bisognerebbe ritardarla per fare meno leggi ed evitare l’alluvione normativa che ormai sommerge la vita pubblica. Si è discusso fino allo sfinimento dell’ingegneria istituzionale, mentre nel frattempo l’amministrazione statale veniva lasciata alla degenerazione burocratica e clientelare, provocando il rigetto da parte dei cittadini. Con un vero transfert il ceto politico ha attribuito alle istituzioni la responsabilità dell’indecisione che invece dipende dalla trasformazione dei partiti in macchine di consenso per i notabili. Da quel referendum veniva la domanda di una democrazia parlamentare, di una vera riforma dell’amministrazione, di spazi di partecipazione per i cittadini. Averle ignorate ha preparato le fascine per il fuoco grillino.

Il secondo referendum non era una questione di acquedotti, era la manifestazione della saggezza popolare che di fronte alla crisi più grave del secolo e dopo trent’anni di liberismo chiedeva di uscirne con la solidarietà, la dignità del lavoro e con i beni comuni. Di fronte a quella formidabile novità un grande partito di sinistra avrebbe dovuto fare un vero congresso alla Bad Godesberg, proporre una lettura strutturale della crisi mondiale, revisionare le vecchie dottrine per darsi un nuovo programma fondamentale e predisporre una campagna di mobilitazione per ottenere risultati tangibili a favore dei giovani e dei ceti popolari. Al PD dopo una settimana già non si parlava più di referendum. Italia Bene comune è diventato uno slogan privo di proposte concrete.

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Quella primavera del 2010 è stato l’ultimo momento utile per uscire a sinistra dalla crisi della Seconda Repubblica. La mobilitazione spontanea dell’elettorato vince per la prima volta contro la destra a Milano, e a Genova, Napoli, Cagliari. Il Pd perde tutti i suoi candidati sindaci ma si intesta il successo e prosegue imperterrito per la propria strada. Non trovando una sponda a sinistra quelle domande hanno cominciato ad ardere le fascine dell’indignazione sotto le uniche bandiere disponibili della lotta alla Casta.

In quei mesi il Pd manca l’unica risposta possibile, cioè intestarsi una lotta coerente ai privilegi della politica per passare alla controffensiva dimostrando che non sono tutti uguali. L’establishment accarezza la protesta con i suoi giornali al fine di produrre un discredito generalizzato dei partiti e quindi evitare che il regime berlusconiano, di cui aveva ampiamente beneficiato, cadesse a favore della sinistra. Non a caso la campagna stampa si accentua dopo la doppia vittoria delle amministrative e del referendum.

In questo modo il Pd arriva indebolito e delegittimato come forza di governo all’appuntamento decisivo della fine della maggioranza di destra ed è costretto ad accettare l’emergenza del governo tecnico. Da quel momento non si riesce più rimettere al popolo la decisione elettorale, come invece si è fatto in una decina di paesi europei, anche quelli in forte difficoltà di bilancio, con risultati che hanno sempre stabilizzato i governi. Il Pd non ha il coraggio di mettere in discussione Monti neppure nel 2012 quando era già evidente il suo logoramento e ancora non era esploso il consenso grillino. Sceglie di fare le primarie in autunno invece di vincere le secondarie. Il coraggio non manca invece a Berlusconi che è riesce a presentarsi come forza di opposizione alle elezioni dopo aver votato tutte le leggi di Monti. La campagna elettorale di Bersani rivela una paurosa carenza di proposta di governo, come mai era accaduto prima. Ce la caviamo dicendo “un po’ di equità e un po’ di lavoro”, ma non può bastare nel cuore della più grande crisi del secolo. I nostri 8 punti sono tardivi e sbrodolati in 80 microproposte tecniche. Berlusconi, invece, cala con chiarezza i suoi assi sul tavolo, che ci piaccia o no, dall’Imu all’attacco all’austerità europea. Si posiziona sui contenuti e non a caso tiene banco anche nei primi passi del governo Letta.

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Come è potuto succedere che una classe dirigente arrivasse così impreparata all’appuntamento cruciale con la crisi della Seconda Repubblica? Perché il Pd non ha percepito i processi che preparavano il collasso? Non aveva gli occhi e le orecchie nella società perché era già consumata la riduzione dei gruppi dirigenti a ceto politico.
A metà degli anni duemila, infatti, Ds e Margherita sono già due partiti spenti. Si uniscono per dare vita ad un partito nuovo e invece portano le rispettive decadenze nel PD. I fondatori diventano subito gli affossatori del progetto che perde rapidamente lo smalto iniziale. Nessuno dei leader riesce a scalfire il primato del ceto politico, pur avendo ricevuto proprio per tale scopo un’ampia investitura dal popolo delle primarie. In molti, compreso il sottoscritto, abbiamo pensato che la partecipazione dei nostri elettori potesse cambiare la logica del Pd. È accaduto il contrario, il ceto politico è riuscito a usare le primarie per conservare se stesso, a dimostrazione che non bastano marchingegni procedurali, ma occorre sostanza culturale e radicamento popolare per cambiare un partito. Questa era la promessa con cui Bersani vinse il congresso nel 2009, ma fu rapidamente accantonata per non modificare lo status quo. Rimase il residuo di una politica debole e non convincente verso l’elettorato, che ha manifestato la sua insoddisfazione all’interno col 40% dei voti a Renzi e all’esterno col 25% a Grillo.

Rispetto all’Ulivo il Pd costituisce non uno sviluppo ma un passo indietro, è inferiore sia per la capacità di governo sia per l’apertura alle diverse culture riformistiche. Basta ripensare al clima di partecipazione, di entusiasmo e di innovazione che si determinò intorno al primo governo Prodi, senza paragoni in seguito. La sua bocciatura al Quirinale è il segnale di processi più profondi che hanno portato alla fine dell’ulivismo e perfino del cattolicesimo democratico. Con la consueta ruvidezza a Renzi è bastato un articolo su La Repubblica per dichiarare finita la rappresentanza cattolica in politica3. E il veto a Stefano Rodotà non è venuto dai cattolici, come si è voluto far credere, bensì proprio da una parte degli ex diessini. Anche questa tradizione, infatti, nel corso degli anni si è sempre più rinchiusa in se stessa. Basta pensare che nel corso di un ventennio la generazione postcomunista ha fondato diversi partiti, ma ha sempre mantenuto il monopolio dei vertici politici, tenendo ai margini altre personalità di sinistra con profilo analogo a quello di Rodotà, presidente del Pds nei mesi iniziali. In questi giorni si è esaurita una genealogia che dal vecchio Pci ha finito per assorbire molti difetti e poche virtù.

Tutto sommato il collasso ha portato chiarezza eliminando i gusci vuoti delle tradizioni. La sinistra italiana adesso è più libera di ripensarsi guardando al futuro.

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Ripensare il popolo

Con tutto il rispetto spero si possa criticare anche l’indirizzo seguito dal Presidente Napolitano. La continua ricerca delle larghe intese ha contribuito non poco all’attuale ingovernabilità. Il paese sarebbe stato più governabile se si fosse agevolato il confronto elettorale prima dell’ascesa di Grillo: nel 2010 senza regalare due mesi di tempo per comprare Scilipoti, nel 2011 senza rendere obbligatorio il governo Monti, nel 2012 senza prolungarne l’esistenza oltre il dovuto, nel 2013 senza impedire a Bersani di andare a cercare i numeri al Senato. Un Quirinale meno attivo avrebbe aiutato la governabilità. Se da questa vicenda venisse avanti il presidenzialismo, aumenterebbe l’ingovernabilità. Gli uomini soli al comando hanno già combinato guai nel governo, elevarli al rango costituzionale sarebbe come curare l’alcolista con il cognac oppure con il bourbon, come dice Massimo Luciani4.

L’accanimento terapeutico delle larghe intese ha prodotto la resurrezione di Berlusconi e l’ascesa di Grillo. Ora abbiamo due populismi e una sinistra senza popolo. Questa asimmetria impoverisce sia di voti sia di pensieri la politica di sinistra. Da quando ci troviamo in questa morsa, infatti, abbiamo preso il vezzo di classificare come antipolitica e populismo tutto ciò che non rientra nelle nostre categorie di analisi. E non è poco, se tra i consensi raccolti dai due comici, il cavaliere e il vaffaleader, e quelli che non votano si arriva a circa tre quarti dell’elettorato. A noi rimane solo un quarto. Viene da domandarsi se siamo normali noi oppure gli altri. Pensare che noi facciamo politica e il resto è solo antipolitica è come andare sull’autostrada contromarcia dicendo che sono impazziti gli altri automobilisti. No, purtroppo siamo impazziti noi a fare politica perdendo tempo appresso a Casini con il suo 2% di voti, senza accorgersi neppure che stava crescendo un nuovo partito del 25%. Chi raccoglie milioni di voti fa politica non antipolitica.

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E anche quando usiamo la parola populismo in senso spregiativo mostriamo una debolezza inconsapevole, cerchiamo di dimenticare che abbiamo perso il contatto col popolo5. Come la volpe dice che l’uva è acerba quando non riesce a coglierla. Propongo di abolire a far data da oggi le parole antipolitica e populismo dal lessico del CRS. La ricerca di parole diverse ci obbligherà ad assumere nuovi punti di vista sulla realtà, saremo costretti ad affacciarci sull’abisso del distacco di milioni di cittadini dalle istituzioni, saremo costretti ad affrontare la questione elusa da circa trent’anni di una sinistra che perde voti nei ceti popolari e li guadagna nelle classi agiate.

Fino a quando sopporteremo una sinistra senza popolo? Da qui bisogna ripartire con un salto teorico e pratico per intendersi meglio sul concetto di “popolo”. La prima battaglia che deve vincere il concetto è con se stesso, deve liberarsi cioè della tradizione che lo vuole come un insieme organico e senza differenze. Il popolo non esiste in natura. Non è un aggregato sociale e tanto meno una classe. E’ prima di tutto una costruzione politica. Nasce un popolo quando il politico decide una linea di frattura sulla quale attesta la ricomposizione dell’eterogeneità sociale.

Nel pieno della più grave crisi economica il malessere non si è espresso nel conflitto sociale pur essendo ampiamente disponibili i motivi. Il collettivo Wu Ming ha osservato che il movimento Cinque stelle ha neutralizzato il conflitto6 orientando il malessere su un cleavage tra casta e società che ha unificato tutti gli altri: destra e sinistra, lavoro e impresa, qualunquismo e partecipazione. In tal senso Grillo non è affatto antipolitico, anzi ha realizzato un capolavoro politico riuscendo a ridurre l’eterogeneità entro una dicotomia politica che spazza via tutte le altre. Qualcosa del genere aveva già realizzato Berlusconi nel ventennio precedente creando il mito del “fate come me per diventare ricchi”. Anche quell’invenzione è stata capace di costruire linee di frattura – contro il fisco, l’Europa, i comunisti – che hanno unificato elementi sociali molto eterogenei tra di loro, come ricchi e poveri, nord e sud, produttori e profittatori. 

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Anche i partiti della Prima Repubblica avevano la capacità di contenere la complessità sociale dentro le linee di frattura delle ideologie novecentesche. Così hanno creato i grandi aggregati interclassisti, non solo quello democristiano, ma in una certa misura anche quello comunista. Il Pci è stato il partito della classe operaia come costrutto ideologico, ma non completamente nella base sociale. Era di meno perché molti lavoratori votavano per la Dc. Era di più perché sapeva ampliare le alleanze verso ampi settori produttivi, professionali ed intellettuali. Non era l’unità di classe a determinare univocamente la politica, ma era la politica che inventava un popolo capace di unificare l’eterogeneità sociale. Il capolavoro della “funzione nazionale” fu possibile perché c’era stato Gramsci che aveva compensato il vuoto di teoria politica del marxismo introducendo il concetto eterodosso di Egemonia. Non a caso questo revisionismo nasce in Italia, riconnettendosi con la tradizione di Machiavelli e misurandosi col tema storico dell’incongruenza nazionale che è l’asimmetria tra Stato e popolo.

In tutti i paesi europei le due entità sono portate all’equilibrio da legami prepolitici radicati nella cultura e negli stili di vita. Da noi mancando una cultura statuale l’equilibrio può essere raggiunto solo per via politica: siamo diventati democratici non per il rispetto delle regole ma in quanto comunisti o democristiani. Questa compensazione della debolezza statuale comporta però sempre un’eccitazione del lato popolare. Per questo ciò che chiamiamo impropriamente populismo è un carattere permanente tra Prima e Seconda Repubblica. La differenza è solo nelle forme diventate oggi più volgari, irregolari e autoritarie rispetto al passato. La continuità è anche geografica: Bossi e Berlusconi nei feudi democristiani delle valli lombarde, delle pianure del nord-est e delle terre meridionali; Grillo sia nelle regioni più bianche sia nelle regioni più rosse. Bisogna rileggere Gramsci, come suggerisce Ida Dominijanni, se vogliamo capire perché le nostre sono sempre rivoluzioni passive e mai trasformazioni radicali della società, dalla Dc al Pci, da Berlusconi a Grillo.

Questo è il compito teorico, unire la lettura gramsciana del politico come costruttore di egemonia con la radicalità del decostruzionismo postmoderno che coglie l’irriducibile frammentazione7. Questa è accentuata proprio dalle trasformazioni del lavoro, non solo nei livelli alti della produzione immateriale, ma anche nelle attività manuali che non possono essere automatizzate. Le divaricazioni tra knowledge-workers e poor-workers, tra occupati e inoccupati, tra pubblico e privato sono solo gli aspetti più visibili di una più generale scomposizione dell’organizzazione produttiva. Dopo una dimenticanza di quasi venti anni, a sinistra è tornata la priorità del mondo del lavoro, non senza l’illusione di poterne ripristinare la soggettività a partire da facili sociologismi o da volontarismi di correnti di partito. Proprio il lavoro invece dimostra che la ricomposizione può avvenire solo nell’immaginario politico.

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Da un lato bisogna affacciarsi sull’abisso, cogliere il perturbante della forma di vita, immergersi nell’eterogeneità. Dall’altro lato però non si deve rinunciare al costruttivismo politico capace di inventare linee di frattura che consentano di ridurre la complessità. Proprio perché oggi è più radicale la frammentazione c’è più bisogno della creatività del politico per ricomporla. Viviamo un’epoca fortemente politica, non è vero che ci sia spoliticizzazione. Oggi, l’autonomia del politico ha qualche chance in più rispetto agli anni settanta. Rileggo l’opera del mio maestro Mario Tronti proprio mentre mi trovo in evidente contrasto con lui sulle scelte contingenti8.

L’esodo dei partiti dallo Stato

Nell’incongruenza italiana è accaduto che la destra di Berlusconi e l’ambiguità di Grillo puntassero sull’eccitazione del lato popolare mentre la sinistra si rifugiava nella nicchia dello Stato. Il Pd corrisponde perfettamente al tipo del party in office descritto dalla scienza politica: un partito di amministratori, gestore delle compatibilità economiche, incistato nelle pieghe della spesa pubblica, incapace di parlare ai tormenti della società. Curiosamente nell’epoca della privatizzazione a oltranza si è statalizzata proprio la politica.9 La destra però ha saputo mantenere un rapporto con l’immaginario popolare, noi invece abbiamo interpretato unilateralmente il processo.

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La sinistra riformista ha portato alle estreme conseguenze la statalizzazione della forma partito, stigmatizzando come populismo tutte le tendenze che hanno evitato quella trappola. Il finanziamento pubblico è nato negli anni settanta come causa ed effetto di tale assorbimento dei partiti nell’amministrazione statale. Mentre aumentavano i soldi dello Stato diminuivano i voti per la sinistra. La disponibilità di risorse pubbliche – non solo finanziarie, ma nelle nomine e nella dispersione della spesa pubblica – ha incoraggiato i politici di sinistra a fare a meno del radicamento popolare. Questa semplice constatazione storico-empirica dovrebbe convincerci a diventare nemici acerrimi dell’attuale finanziamento diretto dei partiti. Senza mettere in discussione il principio, che pure non abbiamo saputo difendere da almeno trent’anni, ma proponendo oggi una radicale riforma che lo legittima di nuovo affidando però la scelta ai cittadini. Abbiamo presentato – siamo un gruppo di parlamentari – un disegno di legge che introduce l’unoxmille e forti detrazioni fiscali per le erogazioni liberali, secondo la proposta avanzata da Pellegrino Capaldo. I partiti non potranno più usare lo strumento legislativo per stabilire quanto debbono prelevare dalle casse dello Stato, ma dovranno andare a cercare gli elettori, convincendoli a utilizzare la propria dichiarazione fiscale per contribuire a definire l’entità del sussidio pubblico. Non sarebbe solo una buona legge di finanziamento, ma indicherebbe ai partiti una via per fare esodo dallo Stato e dirigersi verso la terra promessa del consenso popolare.

Solo questa liberazione può ricondurre quelli che oggi impropriamente chiamiamo partiti nell’alveo costituzionale di associazioni di cittadini finalizzate a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Qui viene a proposito l’idea di Fabrizio Barca di ricollocare l’organizzazione di sinistra nel vivo della società. Ha riscosso un largo interesse e rimesso in movimento energie, è una novità da incoraggiare e da sviluppare. Ho parlato con Fabrizio e abbiamo deciso di trovare punti di contatto tra il CRS e la sua ricerca. 

È suggestiva e foriera di preziose sperimentazioni la proposta di mobilitazione cognitiva, che potremmo chiamare anche creatività sociale. La differenza rispetto al vecchio partito di massa è radicale e forse va resa più esplicita. Non essendo più disponibili i blocchi sociali né i programmi ideologici, nell’organizzazione della politica diventano critiche le dimensioni del chi e del che cosa. La prima fa i conti con la frammentazione e richiede un’inedita capacità di riconoscimento delle differenze identitarie e dei conflitti locali e settoriali. La seconda si misura con la società della conoscenza e richiede una forte capacità di innovazione e di pensiero critico della contemporaneità. Questi due salti di qualità sono mancati clamorosamente nei soggetti politici postideologici soprattutto a sinistra. La carenza si è manifestata in una versione o negativa o banale.

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Nel primo caso la ricerca del chi invece di aprirsi alle differenze è decaduta nell’autoreferenzialità del ceto politico. La sfida cognitiva del che cosa invece di cogliere le opportunità dei nuovi saperi si è rinserrata nella gestione della macchina statale. Nella versione banale, invece, la ricerca del chi ha colto la differenziazione sociale, ma riducendosi a dare ragione a tutti, senza alcuna capacità di selezionare né tanto meno di fare sintesi. Il che cosa è diventato un sapere imposto dall’alto secondo quell’illusione tecnocratica che, appena è andata al governo, ha manifestato tutta la sua miseria concettuale e la sterilità riformatrice. 
La terza via è la mobilitazione cognitiva. Il salto da compiere consiste nell’andare oltre la separatezza tra la ricerca del chi e del che cosa. Solo nell’intreccio tra questi due momenti si produce nuova politica. Quando la differenza tra i soggetti interagisce con il necessario salto cognitivo sgorga la creatività sociale come esperienza politica. Come il vecchio partito di massa organizzava la democrazia aprendo le porte dello Stato ai ceti popolari, così oggi un partito che voglia chiamarsi democratico non a parole deve organizzare la creatività sociale.10

Se questa è la proposta di Barca non solo la condivido, ma aderisco con entusiasmo. Però si deve sapere che è molto lontana dalla condizione reale dei nostri partiti, i quali hanno assunto la curiosa mescolanza di elementi post e pre-partito di massa. Da un lato leader mediatici e dall’altro notabili territoriali sono tenuti insieme da una sorta di patto di franchising, in cui i primi si occupano della cura del brand e i secondi dell’organizzazione del consenso.11 I partiti in franchising sono adatti ad attrarre clienti, non i cittadini che vogliono partecipare alle scelte; sono concentrati sul mantenimento dello scambio locale e quindi rimangono indifferenti all’elaborazione di programmi di governo nazionali; sono forme notabilari e perciò preposte al mantenimento di un ceto politico, ma non alla selezione di una classe dirigente.

La natura e le finalità di questi aggregati sono completamente diverse dalle associazioni di cittadini previste dall’articolo 49. Se dopo una lunga rimozione dal dibattito pubblico si torna a parlare delle forme politiche bisognerà anche adeguare il linguaggio per evitare fraintendimenti. Forse potrebbe aiutare anche un asterisco scrivendo, ad esempio, partiti* per indicare quelli in franchising da non confondere assolutamente con i partiti intesi come organizzatori di democrazia.

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Tra la forma attuale e quella immaginata non c’è continuità, sono due stati quantici diversi. Come un elettrone per passare da un’orbita al’altra ha bisogno o di acquisire energia oppure di perderla, così la trasformazione del partito può avvenire per un salto in avanti o per una radicale destrutturazione dell’esistente. Bisognerà pensare a come organizzare la transizione.

In ogni caso, c’è una sorta di articolo 3 da affermare nelle nostre organizzazioni. Non basta dichiarare in astratto, come si sente spesso, che ci vogliono partiti belli e buoni, ma bisogna rimuovere gli ostacoli che impediscono la bellezza e la bontà.

La mobilitazione cognitiva potrebbe non bastare se si perdesse di vista che in fin dei conti un partito è sempre in una lotta per il potere e questa dimensione non va nascosta dietro retoriche ireniche. Per fare popolo la sinistra deve definire una linea di frattura sulla quale ricomporre l’eterogeneità sociale. L’individuo spaesato nei flussi globali ha bisogno più di prima di principi di individuazione. Nello svuotamento della democrazia il cittadino sempre meno sovrano cerca una parte, ma spesso trova solo l’unanimismo dell’establishment. Nel cuore della grande crisi il lavoro frantumato non si agglutina più in una rivendicazione sindacale ma in un immaginario politico. Con l’espressione “fare popolo” si deve intendere un’azione dall’alto e dal basso

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Dall’alto, nel senso di “fare società con la politica” – come dicemmo nell’assemblea del CRS dopo un’altra sconfitta, quella del 200812 – cioè affermare nuovi contesti cognitivi, i frame di Lakoff, che aiutino i cittadini a prendere consapevolezza dei problemi e delle soluzioni possibili. Ci piaccia o no Berlusconi e Grillo sanno farlo a modo loro, la sinistra potrebbe farlo meglio mettendoci più cultura e più solidarietà.Dal basso ritrovando alimento nella linfa popolare da troppo tempo perduta. È un movimento opposto al precedente perché rinuncia a mettere le braghe al mondo e accetta le contraddizioni della forma di vita contemporanea, senza costringerle in un normativismo astratto, ma piegandosi verso l’umiltà del male di cui ci ha parlato Franco Cassano13

Per una riforma geopolitica dell’Europa

Infine, un’idea di partito è pur sempre un problema storico. Non è mai un modello organizzativo, ma diventa realtà solo se afferra le questioni storiche scoperchiate dalla crisi e riesce a proiettarle nell’avvenire. Non viviamo tempi normali. È davanti a noi la crisi europea.
Si vuole oscurare il fallimento di Maastricht raccontando la storiella popolare dei paesi spreconi del sud che non vogliono rimettere i propri debiti. La doppia semantica della parola Schuld, che significa sia debito sia colpa, spiega lo spessore culturale con cui le elites tedesche coniugano economicismo e “populismo”, a conferma di quanto poco esplicativa sia questa parola che indica fenomeni moto diversi tra loro. Contro lo sciagurato “populismo” di casa nostra Monti ha finito per assecondare quello tedesco che riduce il problema europeo ad un disciplinamento della colpa meridionale, secondo gli stereotipi molto in voga nei giornali popolari tipo Bild.

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Invece di richiamare l’attenzione su chi ci guadagna dalla crisi, le classi dirigenti italiane hanno accettato l’argomento antropologico di una carenza soggettiva dei popoli meridionali. La differenza mediterranea diventa un difetto da rimuovere per adeguarsi allo standard nordico, sembra non essere più parte integrante dell’ideale europeo.È tempo che i paesi mediterranei e in primis l’Italia rivolgano un discorso nuovo al vecchio continente. Non solo per chiedere deroghe alle regole di contabilità, ma per un ripensamento geopolitico del progetto europeo. 

Venti anni fa la transizione postcomunista rese prioritario l’ampliamento verso i paesi dell’est. Quella del dopo muro è stata un’Europa senza Mediterraneo. Le rivoluzioni arabe, o come vogliamo chiamarle, avrebbero meritato la stessa attenzione spingendo il vecchio continente a volgersi verso il suo antico mare, dove si collocheranno le principali questioni del secolo appena cominciato: la questione energetica e ambientale; la creazione di lavoro che può venire solo dalla cooperazione tra le sature economie del nord e la crescita di quelle del sud; la migrazione dei popoli che mette alla prova la civiltà europea tra l’apertura ad un nuovo meticciato o la chiusura nei vecchi recinti; i focolai della guerra permanente e i conflitti religiosi più gravi del nostro tempo.

L’Europa di Maastricht ha la testa altrove, è chiusa a revisionare i conti e si riduce ad una vasta periferia intorno ad un unico centro tedesco. L’Italia è il paese più svantaggiato da questa forma geopolitica e sarebbe quello più interessato a riformarla. Dovrebbe essere alla testa di un’alleanza tra i paesi rivieraschi per spostare il baricentro europeo verso il Mediterraneo. Non è un’ipotesi tra le altre, è l’unica possibilità per mantenere unita la nazione italiana nel XXI secolo. La questione settentrionale e la questione meridionale si sono cronicizzate perché lo Stato unitario non è più in grado di contenerle. Possono essere curate solo nel contesto più ampio di una nuova centralità euromediterranea dell’Italia. Questo è il compito di una nuova sinistra italiana che si candida a governare il Paese. Per riuscirci si deve liberare dalla subalternità verso le ideologie dominanti.

Dopo il trentennio dell’Inganno

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Sembra volgere alla fine questo trentennio che invece di liberista bisognerebbe chiamare dell’Inganno. Aveva promesso più crescita economica e invece è stata inferiore a quella del trentennio glorioso. Aveva promesso di liberare le forze produttive e invece il lavoro e in parte anche il capitale sono stati dominati dalle rendite finanziarie e immobiliari. Aveva promesso meno Stato e invece ha statalizzato i debiti della finanza privata. Aveva promesso che tutte le barche sarebbero state innalzate dall’acqua alta e invece alcune sono sprofondate e altre sono andate a gonfie vele. Aveva promesso di consentire a tutti di prendersi il futuro e invece per la prima volta i giovani hanno la percezione di tornare indietro rispetto ai propri genitori. Aveva cantato gli inni della democrazia universale e invece è aumentata la disaffezione elettorale dei cittadini specie i più poveri.

C’è un disincanto verso queste ideologie e uno spazio aperto per una ripresa della cultura di sinistra. Lo si vede anche nel fermento di tanti movimenti, di esperienze sociali, di nuovi stili di vita, della ricerca di legami sociali. È tempo che queste tendenze sotterranee incontrino una soggettività politica in grado di rappresentarle.

Non si vede un simile cimento nella sinistra italiana ed europea. Perché dopo cinque anni di crisi non si esce dall’Inganno? Certo, non incanta più la gente, è diffuso il malessere sociale, si accendono qua e là anche i fuochi della protesta, la scienza economica si è svegliata dal lungo sonno dell’ortodossia, lo stile di vita del passato viene sempre più messo in discussione. Ma ancora non si afferma in Occidente nessuna alternativa politica all’egemonia liberista. Forse è troppo presto, in fondo il New Deal impiegò quasi dieci anni a rendere convincente la risposta alla crisi del ’29 e poi ci volle la guerra per attuarla a larga scala.

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Se il trentennio fosse stato solo il primato dell’economia sulla politica non avrebbe potuto reggere a tante smentite proprio in campo economico. Resiste ancora perché è stato prima di tutto una forma di dominio politico che, secondo Colin Crouch,14 ha sedimentato strutture di regolazione e di comando capaci di resistere alle smentite della crisi. L’Inganno è una forma politica sfuggente, ma resistente ad ogni burrasca perché capace di presentare le sue decisioni sempre come conseguenze di una razionalità tecnico-economica. Nel contempo la vita reale dei cittadini si allontana sempre di più dai miti che in passato avevano sostenuto quella razionalità. Nella crisi si crea una frattura tra il livello sistemico e la dimensione vitale che si esprime nella dimensione politica come conflitto tra la tendenza tecnocratica e i fenomeni che genericamente chiamiamo “populisti”.

La contrapposizione lacerante tra il normativismo tecnico e l’anomia individuale rende sempre più difficile la decisione. Questo è il dato eclatante della crisi politica europea. E l’Italia è un formidabile laboratorio che anticipa e spiega la divergenza di queste tendenze politiche. Solo qui esse hanno avuto compiuta rappresentazione negli eroi del nostro tempo, il comico e il tecnico. In nessun altro paese queste figure sono arrivate al governo, né sono riuscite a condizionare il sistema politico. Anche nell’ultima campagna elettorale solo il vecchio e il nuovo comico hanno saputo interpretare la risposta vitalistica contro la dottrina dell’austerità europea. Questa d’altronde, aveva trovato l’interpretazione più ortodossa proprio nel governo Monti che è stato, ormai è evidente, più realista del re nell’applicare i vincoli di Maastricht a differenza perfino di alcuni governi dei paesi nordici.

Il comico e il tecnico sono le forme politiche di questo tardo liberismo che resiste senza convincere. Pur molto diversi tra loro, sono uomini soli al comando che chiedono ai cittadini di affidarsi a chi ne sa più di loro o a chi dice di essere proprio come loro. Con l’ubbidienza o l’immedesimazione non si esce dall’Inganno. 
Sono invenzioni italiane che, pur non avendo paragoni negli altri paesi, non di meno esprimono caratteri latenti della politica europea e segnalano una più ampia carenza egemonica delle classi dirigenti. Questo, anzi, è il nodo della crisi europea, l’accentuazione della frattura élite-popolo. C’è una doppia incapacità delle élites, in un verso di convincere i popoli e nell’altro di metabolizzarne le energie vitali. L’epifania in Italia di questa apparente divaricazione tra tecnocrazia e populismo anticipa ed esaspera una tendenza europea verso soluzioni unilaterali dell’ingovernabilità. I nostri problemi anticipano quelli europei, per questo nelle cancellerie si preoccupano di noi. 

La sinistra italiana finora è rimasta schiacciata in questa morsa. Ha subito sempre l’egemonia altrui. Prima accettando senza colpo ferire tutti gli errori del governo tecnico, che solo un anno fa era scandaloso criticare, mentre oggi sono proprio i più accaniti difensori di quei provvedimenti a spiegarci che bisogna rivedere l’Imu e il doppio fallimento Fornero sulle pensioni e sul lavoro. In secondo luogo presentandosi in campagna elettorale senza un progetto riformatore capace di convincere gli italiani e di smascherare le illusioni grilline e berlusconiane.

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Bisogna lavorare ancora sull’anomalia italiana. In passato si è spesso manifestata in Europa come innovazione maligna. Ma nel Paese dell’invenzione politica si può immaginare anche una via d’uscita per la crisi di egemonia delle classi dirigenti europee. Solo una sinistra che “fa popolo” può realizzare le riforme con il consenso dei cittadini. L’anomalia italiana deve ancora mostrare il suo lato positivo.

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