Rodotà: sano e robusto, come la Costituzione

Il professore al Quirinale? Sarebbe una rivoluzione, una nuova stagione per i diritti [Luca Bizzarri]

Rodotà: sano e robusto, come la Costituzione
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19 Aprile 2013 - 18.45


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di Luca Bizzarri

Stefano Rodotà al Colle! Fa strano solo a sentirlo. La prima carica dello Stato associata a una di quelle persone che hanno segnato con parole e scritti un percorso ben definito nella crescita intellettuale di molti giuristi progressisti del nostro tempo.

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Rodotà è diventato un personaggio popolare per lo più grazie alla carica di Presidente dell’Authority sulla riservatezza dei dati, carica di prestigio e di una certa importanza nel mondo globalizzato e sempre più fluido nel quale i nostri dati entrano in circolazione. Tuttavia coloro che nella propria vita hanno fatto studi giuridici potrebbero aver avuto l’opportunità di imbattersi nel Rodotà degli scritti riguardanti le fonti del diritto privato. Dico “potrebbero” perché la teoria che Rodotà concepì alla fine degli anni sessanta poco si adattava agli schemi formalistici, e vieppiù positivistici di romantica memoria, che caratterizzavano le facoltà di giurisprudenza nell’Italia di quegli anni.

Fra i primi libri che mi è capitato di leggere, quando iniziai il mio ciclo di dottorato in diritto privato comparato, ricordo con vivo entusiasmo proprio il libro di Stefano Rodotà che modificò radicalmente il mio modo di intendere il mondo del diritto e in particolar modo il diritto fra privati. Nel 1969 uscì in Italia la teoria di Rodotà che annoverava la clausola generale di buona fede fra le fonti di interpretazione della volontà contrattuale. Altrimenti detto da quel momento un soggetto terzo, il giudice, trovava nella dottrina la legittimazione ad intervenire nella determinazione del contenuto del contratto valutando se fra le fonti di formazione di quel determinato contenuto ci fosse stata la buona fede dei soggetti contraenti (banalmente detto se i due contraenti avessero stipulato un accordo vincolante in condizioni di oggettiva equità).

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Una rivoluzione di sistema. Uno sconvolgimento a più livelli per accademici e giudici del Belpaese, così abituati e formati a pensare che la volontà del negozio fosse pura e sempre assolutamente giusta. Per la prima volta in Italia la dottrina affrontava in maniera dirompente la questione etica del diritto privato e lo faceva alla luce dei principi della Costituzione attingendo a valori quali la dignità della persona e la solidarietà fra cittadini (oltre che fra Stato e cittadini). Stefano Rodotà segnava con questo approccio radicale al contratto il confine tra dovuto e voluto, tra prepotenza del più forte sul più debole e protezione della parte debole da condizioni sconosciute e imprevedibili del contratto e dai conseguenti abusi sulla formazione della propria volontà. Senza dubbio alcuno Rodotà determinava con la teoria della buona fede come fonte integrativa del contratto lo spartiacque fra il sopruso legittimato del debole e l’equità sostanziale del negozio. Un affare tra privati diventa improvvisamente, almeno dal punto di vista dell’affermazione teorica, un affare pubblico e come tale lo Stato è tenuto a tutelare la posizione debole con un intervento diretto sul contenuto e sugli effetti dell’atto.

È facilmente immaginabile la forza dissacrante e invasiva di un approccio di questo tipo nella mente di un giurista alle prime armi, abituato ad applicare le norme con uno schema mentale di causa ed effetto per lo più dal vago sapore aritmetico. Esaltato da questo modo di intendere il patto feci della teoria di Rodotà, e di tutti coloro che seguirono (un pensiero del genere non può che creare sconvolgimenti anche a livello accademico) un mio metodo di intendere il diritto che mi ha accompagnato fino alla fine degli studi.

Ho conosciuto perosnalmente Stefano Rodotà nel corso dei colloqui biennali dell’associazione italiana di diritto comparato che si svolsero a Ferrara nel 2007 quando all’epoca ero assistente di cattedra e coordinavo i lavori di organizzazione dei colloqui per il mio professore. Capitò in sorte a me di andare a prendere Rodotà in macchina a Bologna con tutte le ansie che mi portavo dietro nel conoscere colui che mi aveva aperto gli occhi su alcuni aspetti del diritto, ma soprattutto nell’affrontare un lungo viaggio in macchina da Bologna a Ferrara costretto a conversare nella speranza di non affrontare questioni spinose o che svelassero mie preparazioni non adeguate. Il viaggio fu esaltante. Rodotà abituato forse alla varietà del genere umano fu di una gentilezza disarmante, interessato da subito a chi fossi e a cosa studiassi, pronto a chiedere e a conoscere aspetti della ricerca che stavo conducendo in quel periodo, imbarazzato nel dovermi chiedere di sospendere la comunicazione per telefonare alla figlia e a domandarmi subito dopo se poteva avere la possibilità di utilizzare il mio computer per spedire alla redazione di Repubblica un articolo che aveva promesso di far arrivare in giornata. Fu un viaggio di grande umanità, devo ammetterlo, e ci rimasi male quando una volta arrivati a Ferrara venne accolto in maniera fredda e disinteressata dall’Accademia perché probabilmente ormai fuori dai giochi universitari delle assegnazioni di cattedra. Fece un intervento breve, utlizzò il mio computer per spedire il pezzo, mi chiese di dargli un passaggio in macchina alla stazione dei treni e ripartì. E con lui la mia speranza rivoluzionaria legata alle fonti del diritto.

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Stefano Rodotà sparì da qual momento dal mio orizzonte di interessi finché non ho incominciato a occuparmi di gestioni di enti culturali. Fu quello il momento in cui mi sono nuovamente imbattuto in Rodotà, che per la seconda volta mi ha accompagnato alla scoperta di una nuova frontiera giuridica, quella dei beni comuni. Stefano Rodotà presiede dal 2007, come forse è noto, una commissione parlamentare (la ‘commissione Rodotà’ appunto) sulla riforma dei beni giuridici. Anche in questo caso, e con la forza dirompente che lo ha sempre contraddistinto, Stefano Rodotà ha portato alla discussione politica un tema scottante dai chiari risvolti di politica del diritto ossia quello della divisione fra proprietà privata e proprietà pubblica. Lo ha fatto con l’introduzione di un terzo genere, sconosciuto alla cultura giuridica tradizionale (anche se presente storicamente nella definizione di ‘uso civico’), che è quello di bene comune. La categoria in questione non rientra stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché riguarda beni a cosiddetta titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque, l’aria, i parchi, le foreste e le zone boschive, le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni, i tratti di costa dichiarati riserva ambientale, la fauna selvatica e la flora tutelata, le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano anche i beni archeologici, culturali e ambientali. Sono tutti beni che soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per l’assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche. La Commissione li ha definiti come beni che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità. Ritorna con prepotenza quello schema di tutela che aveva caratterizzato il pensiero del Rodotà delle fonti giuridiche. È lo stesso professore ad affermare che “Certo, va evitato l’eccesso di riferimenti ai beni comuni. L’inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell’espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza. E, tuttavia, è cosa buona che questo continuo germogliare di ipotesi mantenga viva l’attenzione per una questione alla quale è affidato un passaggio d’epoca”.

E da qui alla promozione delle grandi battaglie civili che hanno caratterizzato l’Italia di questo ultimo ventennio e che fra le ultima vale la pena ricordare il referendum sull’acqua bene comune e la costituente del Teatro Valle e dei beni culturali occupati che si è appena svolta a Roma e alla quale Rodotà ha preso parte attiva per far ripartire i lavori della Commissione. Non lo ha mai fatto con mire di protagonismo. Anzi ha criticato aspramente e pubblicamente chi, come Ugo Mattei, ha fatto della lotta per l’affermazione dei beni comuni un manifesto di propaganda elettorale.

Stefano Rodotà, all’età di 80 anni si conferma faro e alto riferimento del costituzionalismo più moderno e progressista. Lo ha fatto anche recentemente (La Repubblica, 3 gennaio 2013) con quello spirito di ragione, illuminazione e cuore che caratterizza gli intellettuali più vicini al sentire comune, entrando a gamba tesa nell’agenda Monti e criticando il suo governo con l’auspicio di una nuova stagione dei diritti: “Si può avere un’agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro. Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti.”

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Che questa stagione sia finalmente all’inizio?

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