Lo scorso 26 maggio un giovane italiano di nome Abou El Maati, 24 anni, si è suicidato nel carcere di San Vittore. Neppure due settimane dopo, il 7 giugno, si è ucciso nella cella vicina Giacomo Trimarco: 21 anni, dentro per il furto di un cellulare, lui in carcere non avrebbe neppure dovuto esserci; da 8 mesi era stato destinato a una REMS per curare un disturbo di personalità definito incompatibile con la detenzione, ma l’attesa che si liberasse un posto lo ha relegato proprio a San Vittore, dove al terzo tentativo è riuscito a togliersi la vita inalando il gas. Pochi giorni fa, il 1 agosto, una donna di 36 anni con problemi di tossicodipendenza si è impiccata nel carcere di Rebibbia. Qualche ora dopo, Donatella – 27 anni, detenuta per piccoli furti e anche lei in lotta con le dipendenze – si è uccisa con il gas nel carcere di Montorio a Verona, mentre di lì a poco una pratica in esame le avrebbe probabilmente assegnato un’alternativa al carcere. Ancora, il 5 agosto Cossio Cicchiello, 50 anni, si è ucciso nella sua cella ad Arienzo impiccandosi con i brandelli del lenzuolo.
È un elenco lungo e straziante: 60 nel 2020, 54 nel 2021 e a 5 mesi dalla fine dell’anno i suicidi accertati nelle carceri italiane sono già 47. C’entrano il sovraffollamento – che annienta gli spazi vitali e rende le celle invivibili – l’insufficienza dell’intervento psichiatrico nelle carceri e, ancor prima, la difficoltà dei servizi territoriali a garantire la continuità terapeutica. Ma c’entrano anche la scarsa accessibilità al lavoro e alla formazione in carcere e una pena che, così com’è, non può assolvere ad alcuna funzione riabilitativa. Per non citare la fatiscenza e l’insalubrità della maggior parte degli istituti penitenziari: logori blocchi di cemento sbattuti nelle periferie 40 o 70 anni fa, troppo lontani da quella società in cui lo Stato avrebbe il dovere di reinserire ogni singolo essere umano che vi detiene.
Non da ultimo, le condizioni in cui è costretto a lavorare tutto il personale penitenziario, la cui incolumità è sempre più a rischio: meno di una settimana fa, l’ultima aggressione di una detenuta ai danni di un agente nel carcere di Sollicciano, che recentemente il Garante regionale per i diritti dei detenuti della Toscana ha definito in un intervista a Il Tirreno “una realtà fuori dal tempo e dalla Costituzione” […] “nonostante il personale, dal direttore alla polizia penitenziaria, si diano un gran daffare”.
Se mai ci fosse bisogno di aggiungere altro correrebbe in soccorso l’ultimo rapporto di Antigone, che porta alla luce due autentici paradossi: mentre i reati sono diminuiti, la durata delle pene è aumentata; peggio ancora, gli ingressi in prigione sono calati ma la recidiva sta salendo alle stelle. Numeri alla mano, alla fine del 2021 solo il 38% dei detenuti nelle carceri era alla prima detenzione e, del restante 62%, il 18% c’era già stato almeno 5 volte. Sono dati impietosi che certificano l’inadeguatezza di un sistema tutto da ripensare. Dipendenze, disagi psichici, povertà e abusi: da questo proviene la maggior parte delle persone detenute nel nostro Paese; spesso sono dentro per reati minori, scontano la pena nel contesto che conosciamo e tornano appena usciti alle sole cose che conoscono, finché la loro storia non finisce per ripetersi. Il solo modo per rompere questo circolo vizioso è, a mio avviso, imparare a garantire il pieno godimento dei diritti sociali: non si tratta di mitizzare la figura del detenuto ma di riconoscere che trattare chi è dentro perché ha sbagliato come se non meritasse lo status di essere umano è l’esatto opposto di ciò che serve per costruire una società più sicura.
Lo scenario attuale è una sconfitta per tutti, qualcosa che non trova spazio in una società che voglia definirsi moderna e civile né onora il principio che è sancito nella nostra Costituzione. È scritto a caratteri cubitali sul muro di contenimento di una terrazza del carcere della Gorgona: articolo 27, comma III, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sta a noi – Stato e società – l’onere di tenere fede a quelle poche e potenti parole.