Quando una vita fa uscirono i primi CD, che sostituirono i leggendari long playing, un mio amico cominciò a comprarne, pur non avendo ancora un lettore, all’epoca parecchio costoso. “Ma che ci fai, se non li puoi sentire?” gli chiedevo, incredulo. “Be’, intanto me li assicuro, tanto prima o poi il lettore me lo compro”.
Questo lontano ricordo mi è tornato alla mente riflettendo sulla struttura di terapia intensiva allestita alla Fiera di Milano, sull’onda della pandemia del Coronavirus, accolta con acritica gioia dai più. Una imponente operazione politica e tecnica, motivo di vanto civile: ma è proprio così?
La struttura (è improprio chiamarla “ospedale”) è stata realizzata grazie alle numerose e cospicue donazioni, ammontanti a oltre 21 milioni di euro, un mega-investimento di cui non è stata fornita alcuna rendicontazione: si mormora che i costi siano lievitati a quasi 50 milioni. Cioè, sull’onda dell’emergenza si è data carta bianca alla Fondazione creata ad hoc (3 membri, tra cui il Presidente di Fiera, Enrico Pazzali) per gestire i fondi disponibili (e non disponibili), senza considerare l’effettiva utilità di una tale opera e mettere in atto controlli adeguati in merito alle spese. Sì, si dirà, ma l’emergenza non poteva aspettare i tempi della burocrazia.
Proviamo allora a ribaltare il discorso: era davvero necessaria una simile struttura, così destrutturata (ci si perdoni il gioco di parole), disaggregata da una realtà ospedaliera completa, che prevede vari reparti operanti in coordinata sinergia? Il 6 aprile, il giorno dell’inaugurazione (celebrata, si ricorderà, con una affollatissima conferenza stampa finita nel mirino del Codacons per gli assembramenti provocati), andando in controtendenza con il coro belante che magnificava la “grande opera” il cardiologo Giuseppe Bruschi, Dirigente medico di I livello dell’ospedale Niguarda, scriveva su Facebook: “L’idea di realizzare una terapia intensiva in Fiera non sta né in cielo né in terra”. Il perché di una tale presa di posizione è lampante: “Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre strutture complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un ospedale”. È un discorso chiaro, logico, comprensibile anche con una normale dose di buon senso: un paziente ricoverato in terapia intensiva può avere tutta una serie di problemi di salute, per curarlo c’è bisogno di differenti specialisti: “non solo infermieri e rianimatori, ma infettivologici, neurologi, cardiologi, nefrologi, chirurghi” e così via. Morale: creare una struttura di rianimazione a sé stante è assurdo.
Secondo il dottor Bruschi (e secondo il buon senso), le montagne di soldi spesi per la tanto magnificata struttura della Fiera potevano e dovevano essere investiti in modo ben più proficuo: “Perché costruire un corpo a sé stante, quando si sarebbe potuto potenziare l’esistente? Sarebbe stato più logico spendere le energie e le donazioni raccolte per ristrutturare o riportare in vita alcuni dei tanti padiglioni “abbandonati” degli ospedali lombardi (Niguarda, Sacco, Varese…). Si sarebbe investito nel sistema in essere e quanto creato sarebbe rimasto in dotazione alla sanità lombarda”.
Dunque, l’idea di creare in Fiera un hub regionale per i malati di Covid-19 per svuotare gli ospedali ordinari è minata alle fondamenta. A conferma di quanto sostiene il dottor Bruschi, ci sono due problemi difficilmente risolvibili: un’ambulanza ha meno di tre ore di autonomia di ossigeno, e giungere in Fiera entro questo lasso di tempo, partendo, tipo, dalle province di Sondrio o Mantova, è parecchio complicato. Inoltre, i medici movimentano i malati intubati solo quando sono costretti, in quelle condizioni ogni spostamento può risultare fatale.
Ma le difficoltà poste dalla struttura creata in Fiera non finiscono qui. Ad oggi, risultano ricoverati una dozzina di pazienti, presi in carico da una cinquantina di medici, tecnici e paramedici che turnano sulle ventiquattro ore. È una situazione già limite: per accogliere altri pazienti, bisogna assumere le figure professionali necessarie (ne servirebbero mille, tra cui 200 medici e 50 infermieri), figure che, come sappiamo, scarseggiano in tutto il Paese, e in particolare nelle regioni del Nord. E infatti risulta che l’80% del personale di questo “Covid-hospital” sia in servizio al Policlinico di Milano (cui è affidata la direzione sanitaria di questo hub), o venga spostato dall’Ospedale Maggiore e dalla Mangiagalli (clinica gestita dal Policlinico): per coprirne i turni, si è messa in moto un’assurda partita di giro, che non alleggerisce il lavoro negli ospedali. Morale: i posti letto di terapia intensiva disponibili in Fiera sono ridicolmente bassi rispetto alle somme investite (sperperate?) per il suo allestimento. Inizialmente erano previsti 600 posti letto, adesso ci dicono che si punta ad averne 205, cifra chimerica secondo molti. Al momento siamo a 53, altri sono in costruzione, le stime più ottimistiche dicono che a fine aprile si arriverà a 157 letti. Posti teorici, vista la mancanza di personale.
Ecco, questa paradossale situazione mi ricorda quel mio amico che si comprava i Cd senza avere il lettore, senza cioè poterli ascoltare, rimandando il problema ad uno speranzoso futuro. Naturalmente, il paragone tiene solo sino a un certo punto, perché qui sono in ballo enormi interessi, che ci riguardano tutti. Il pericolo è quello di aver assistito ancora una volta a un’operazione dissennata, la creazione di una costosissima struttura clinica senza prospettive: terminata l’emergenza, a cosa servirà?
Una cosa, purtroppo, pare già chiara: operazioni come quella messa in atto in Fiera non paiono un cambio di rotta rispetto alla scellerata demolizione del Servizio Sanitario Nazionale operata negli ultimi trent’anni in questo scellerato Paese. Più che “eccellenza lombarda”, la tanto strombazzata struttura di cui il governatore Fontana e i suoi colleghi menano vanto rischia di essere la solita inutile e dispendiosa cattedrale nel deserto di italica memoria.
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