E se nell’emergenza Coronavirus si stesse ripresentando il conflitto fra capitale e lavoro?

Siamo tormentati dal dubbio che qualcuno non voglia pagare il duro prezzo al virus e che dietro la facciata dalla ritrovata compattezza nazionale lo spirito corporativo continui ad agire sottotraccia.

Coronavirus e lavoro in fabbrica
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Antonio Rinaldis Modifica articolo

24 Marzo 2020 - 21.58


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Martedì 24 marzo. 19° giorno

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Sulla vetrina di una gelateria chiusa è stato affisso un lenzuolo con il disegno di un arcobaleno e la scritta Ce la faremo. Il proprietario del locale ha evidentemente voluto trasmettere un messaggio di speranza ai pochi passanti che hanno ancora voglia e coraggio di scendere in strada in questi giorni, in cui la primavera si fa beffardamente sentire.
Ce la faremo, chi? Perché dietro le parole d’ordine buoniste, gli hashtag che suonano anche un po’ minacciosi, del tipo Io resto a casa, vorrei capire se siamo davvero uniti come sembra e se di fronte all’emergenza tutti, ma proprio tutti hanno rinunciato a perseguire i propri interessi, la cura del particolare, se non del profitto.
Ce la faremo, chi? Oppure si salvi chi può? La vicenda che vede contrapposti i Sindacati confederali, la Confindustria e il Governo sula individuazione delle attività essenziali mette in luce un elemento che sembra contraddire la retorica patriottica e solidaristica, mostrando il lato spiacevole di questa crisi. Domenica sera il governo aveva disposto la chiusura di tutte le attività produttive, ma contemporaneamente aveva reso noto l’elenco dei settori economici considerati strategici, che quindi non rientravano nel blocco. A questo punto i Sindacati si sono indignati ed hanno minacciato uno sciopero per far chiudere le fabbriche, perché la salute dei lavoratori venisse salvaguardata.
Siamo tormentati dal dubbio che qualcuno non voglia pagare il duro prezzo al virus e che dietro la facciata dalla ritrovata compattezza nazionale lo spirito corporativo continui ad agire sottotraccia.
Chi ha ragione? Gli imprenditori che temono per il futuro delle loro aziende o lavoratori che difendono il loro diritto alla salute? E se anche nell’emergenza si stesse ripresentando il fantasma del conflitto fra capitale e lavoro? L’altro giorno ho scritto che quando si deve scegliere fra vita e diritti il dilemma è tragico, ma non è ancora più terribile dover scegliere fra vita e profitto?
Non dimentichiamoci che alla fine della 1° guerra mondiale si era coniato lo slogan pescecani di guerra per indicare le industrie che si erano arricchite con le commesse statali per la fornitura di materiale bellico di pessima qualità e che da quella polemica antiborghese ha preso spunto la propaganda fascista di Benito Mussolini.
Se proprio ce la vogliamo fare ce la dobbiamo fare tutti insieme, accettando di condividere perdite, lutti e rinunce, altrimenti l’Italia che ritroveremo alla fine dell’incubo sarà più divisa e cattiva.

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