Tra le molteplici autorappresentazioni di Zelig-Salvini alcune sono tragicomiche, come quella che lo raffigura come eroe greco, un Achille padano, ha persino la barba omerica, che difende la Patria dagli stranieri, oppure quella ancora più inverosimile che lo vede nella parte del fedele devoto a tutti i Santi Patroni dei luoghi che visita, compreso San Parmigiano Reggiano, se si tratta di raccogliere qualche migliaio di voti. Sono personaggi che il capo della Lega interpreta con grande serietà e che gli hanno permesso di entrare nell’Olimpo dei grandi statisti che hanno contribuito a scrivere la Storia italiana, ma se ci sforziamo di uscire dalla parodia salviniana e proviamo a comprendere il motivo del consenso che Salvini e anche Meloni riscuotono presso l’opinione pubblica, allora ecco che emergono dei motivi seri di riflessione, anche per noi che non riusciamo a lasciarci sedurre dalla propaganda socialfascista.
Ci sono alcune parole che ritornano con prepotenza nel gergo politico non solo italiano ma anche europeo: identità, patria, valori. Se li mettiamo insieme e li combiniamo questi tre termini ne formano uno, molto importante e di cui si sente il bisogno: comunità.
Per comprendere come nasce il bisogno di comunità bisogna risalire alla fine del secolo scorso, quando la caduta dei regimi pseudo comunisti dell’Europa orientale scatena un’onda lunga di ottimismo liberista, che esalta il mercato e l’individualismo, come se la soluzione di tutti i problemi che avevano afflitto l’umanità fossero la libertà d’impresa e gli investimenti finanziari. Qualcuno come George Fukuyama aveva profetizzato la fine della Storia e l’inizia del Paradiso capitalistico, l’ultima società umana, la più perfetta.
L’11 settembre 2001 ha infranto l’ottimismo liberista. La Storia non era finita, le convulsioni del Mondo umano erano tutt’altro che risolte, la pax capitalista aveva nemici perfidi e imprendibili. Alla minaccia terroristica si sono aggiunte in successione la crisi economica del 2008, i fenomeni migratori dell’ultimo decennio, la crisi dell’integrazione europea, le potenze economiche emergenti come la Cina, e infine l’incubo del collasso ambientale; il nuovo secolo ha sgretolato le promesse con cui si era chiuso il ‘900 ed ha creato paure e insicurezze che i cantori delle magnifiche sorti e progressive non riuscivano ad arginare, e nel caos che ha sconvolto l’Occidente è emerso un nuovo mostro, il socialfascismo che è la reazione isterica ai fenomeni che turbano l’opinione pubblica europea e americana. Intorno alla dottrina socialfascista si è costruito un arcipelago di valori e di principi intorno ai quali è nata un’idea di comunità regressiva e primordiale che riassume le paure che conseguono al fallimento del modello neoliberista nella sua versione hard. Secondo questo modello, che desidera superare l’individualismo capitalista, una comunità per essere tale deve essere esclusiva, fondata cioè su legami etnici di appartenenza, che considera un potenziale nemico chiunque non rientri nei requisiti stabiliti dalla comunità stessa; identitaria, ovvero possedere un nucleo forte che si riconosca per alcune caratteristiche che gli sono proprie, di natura, storica, razziale, religiosa, ideologica; protettiva, e quindi in grado di garantire ai membri inclusi una serie di privilegi e di reti di protezione sociale, economica e persino territoriale e li preservi dalle invasioni degli stranieri, coloro che provengono da Fuori; il tratto politico di questo sistema è l’autoritarismo, che si incarna nella figura del capo carismatico, il leader che guida lo spirito del popolo e lo rappresenta misticamente davanti alla Storia e contro gli altri popoli.
Di fronte a questo modello che si sta affermando presso le opinioni pubbliche, attraverso la costruzione di fake news e un abile sistema di propaganda social occorre contrapporre un’altra visione della comunità, emancipandosi dal servilismo culturale che ha caratterizzato il pensiero progressista negli ultimi decenni. Alla comunità chiusa socialfascista si deve contrapporre una comunità aperta e democratica che si regge su alcuni principi fondamentali: la pluralità delle lingue, delle esperienze e delle idee, l’apertura dialogica come il modus attraverso la comunità si confronta con il Fuori, con quello che è oltre il confine, la giustizia sociale che deve essere garantita ai membri, senza distinzioni di razza, religione, etnia, facendo valere il principio di solidarietà su quello opposto del conflitto. Una comunità aperta di questo genere si impegna collettivamente per la costruzione della felicità sociale e della bellezza etica, che consistono rispettivamente nella promozione del talento e del merito individuale in maniera armonica e non competitiva, e nella creazione di un mondo a misura dell’equilibrio fra uomo e natura, in uno sforzo per ricreare armonia e coesistenza fra progresso e rispetto dell’essere che ci è stato donato.
È un’utopia questo modello di comunità? Potrebbe sembrare, ma le radici sono state poste nella Costituzione italiana del 1949. Sarebbe sufficiente tradurre in atti concreti i principi generali contenuti nei primi tredici articoli per creare quella comunità di valori di cui aveva parlato anche Mc Intyre, che si fonda sull’idea che non si nasce membri di una comunità, ma si diventa attraverso un percorso di maturazione e di integrazione con i principi che l’hanno istituita.