Sono passati due mesi della caduta del governo socialfascista e poco più di un mese dalla nascita del nuovo esecutivo ed è quindi possibile tracciare un primo, provvisorio bilancio degli eventi che hanno rovesciato alleanze, creato nuove intese, fondato nuovi partiti dai nomi altisonanti. Non siamo riusciti neppure a gioire per la caduta di uno dei peggiori governi della storia repubblicana, che si era distinto per le leggi sulla sicurezza, l’isolamento diplomatico con l’Europa, un sostanziale peggioramento della situazione economica e finanziaria dello Stato e dell’intero Paese, e dopo qualche settimana di apparente idillio anche i nuovi alleati hanno intrapreso una lotta quotidiana per assicurarsi visibilità e autorevolezza. Agli occhi di un’opinione pubblica sempre più incerta e ondivaga, disorientata dal marasma cronico in cui versano le istituzioni.
Cambiano i governi, ma il problema resta. La democrazia si trasforma in dossocrazia e non si riesce più a intravedere il disegno per una grande politica. Democrazia era in origine la speranza che il cosiddetto popolo diventasse protagonista della vita pubblica, attraverso il suffragio universale per esempio, la nascita dei grandi partiti di massa, le lotte per i diritti civili e politici delle donne. Tutto ciò nei primi anni del ‘900 è apparso in maniera prepotente e le masse sono diventate protagoniste della vita politica delle democrazie liberali occidentali. Non erano mancate le voci critiche, che però provenivano da quell’élite intellettuale di orientamento conservatore, che, come Ortega y Gasset, aveva messo in luce gli aspetti potenzialmente distruttivi dell’ascesa delle masse, come l’omologazione e la banalizzazione della vita sociale e culturale, ridotta a puro prodotto di consumo, adattata a un gusto livellato e sempre più povero. Ma agli inizi del ‘900 le voci critiche parevano stonate e potevano essere liquidate come la resistenza dei ceti privilegiati nei confronti delle legittime rivendicazioni di un popolo da sempre escluso e sottomesso. Nel XXI secolo non è più scandaloso denunciare il degrado del dibattito politico, e la riduzione del linguaggio nella forma elementare dello slogan che dalla pubblicità ha contaminato ogni altra forma di comunicazione. Slogan è un termine che deriva dall’inglese e prima ancora dal gaelico e significava in origine grido di guerra. L’origine del termine spiega il significato: che cos’è uno slogan, se non un grido, una regressione gutturale che provoca e incita al conflitto, alla contrapposizione, alla mobilitazione? Nato come arma della pubblicità, nel mercato delle marche e dei marchi, lo slogan è il tratto distintivo della politica contemporanea, dove la competizione ha smarrito la progettualità per trasformarsi in una lotta estenuante per conquistare la visibilità massmediatica.
Ma quand’è che la democrazia si è trasformata in dossocrazia ed ha causato la morte della Grande Politica? Nel momento in cui le istanze di riscatto sociale, economico e culturale delle masse operaie e contadine hanno trovato accoglienza presso le istituzioni democratiche, con l’implosione dei racconti che progettavano una radicale trasformazione del mondo, come il socialismo e persino la socialdemocrazia, i partiti si sono trasformati in macchine elettorali che hanno inseguito gli umori popolari, attraverso il perverso sistema dei sondaggi e delle ricerche di mercato, ed hanno abbandonato il ruolo guida che il partito nella sua versione otto-novecentesca aveva interpretato. Dossocrazia è il governo dell’opinione pubblica, sempre fluttuante, specchio di una società senza valori e con una miriade di interessi particolari che i vari leader politici cercano più o meno furbescamente di attirare con promesse senza fondamento. La politica è diventata così l’arte della promessa mirabolante, senza alcuna onestà intellettuale, e soprattutto senza alcun senso del reale. In questo smarrimento di presente, la politica è una continua ressa per il Potere, una campagna elettorale permanente, perché le elezioni sono l’equivalente del giudizio di Dio, e l’elettore è il vero sovrano a cui sono affidati destini del paese. Ma anche in questo caso si tratta di propaganda e di slogan, perché la realtà sembra fornire altre risposte. Per intanto il cittadino elettore, che viene evocato nei talk show e nei comizi è sempre meno interessato a votare, dal momento che il trend dell’astensionismo negli ultimi decenni è cresciuto enormemente, al punto che il primo partito italiano è quello dei non votanti. É la kenosi della democrazia, lo svuotamento del suo significato, perché al di là della propaganda populista si è diffusa la convinzione che l’esercizio del diritto di voto sia un’attività inutile, dal momento che è venuta meno la speranza di influenzare le decisioni di una classe dirigente sempre più distante e invisibile, nonostante la messa in scena di una serie di rituali che dovrebbero sancire la Santa Alleanza fra popolo e politici. Sembra che la profezia marcusiana di un uomo a una sola dimensione si stia avverando e che nessun altro mondo, oltre questo, sia possibile.
Come uscire dal disincanto che raggela le coscienze e deprime la fantasia dei molti?
Non è questo il luogo per proposte politiche concrete, né per indicare programmi di governo, e tuttavia qualche riflessione va fatta. Come spesso accade quando il presente è incerto e il futuro è nebuloso può essere utile voltarsi indietro per cercare nel passato, anche recente, qualche segno per il riscatto dalla disillusione. Negli anni difficili del secondo dopoguerra il filosofo marxista Ernst Bloch scrive il Principio speranza, un testo nel quale le parole chiave sono utopia, apertura e speranza, per l’appunto. Utopia è ciò che ancora non c’è, è l’inizio di una vita nuova, critica del presente, ma anche scopo e obiettivo verso il quale dirigere gli sforzi e le lotte; speranza è apertura, sconfitta della paura che chiude i cuori, lavoro che si nutre di affetti e si getta in avanti.
Di tutto questo la politica e il nostro mondo imprigionato hanno un bisogno disperato.