In Cosa nostra e dintorni non è necessario essere espliciti, anzi più si parla in cifrato più risultati si ottengono. Chi mi ha insegnato a “leggere” le cose di mafia, un giorno mi ricordò di un vecchio capomafia della famiglia di Porta Nuova a Palermo. Quando sedeva a tavola con quelli della sua famiglia, coi suoi picciotti, lui se ne stava all’angolo della tavola, quasi defilato, mentre gli altri mangiavano e bevevano. E lui, in silenzio, si limitava a tamburellare le dita sul legno, esclamando, di tanto in tanto, un sibillino “Mah…”. Chi gli stava accanto non capiva. In effetti non doveva capire, doveva solo cogliere il messaggio, apparentemente generico. Ma chi aveva uno scheletro nell’armadio, chi aveva “sgarrato” o solo pensato di sgarrare, coglieva in quelle dita che tamburellavano sulla tavola e in quella esclamazione, una minaccia, un avvertimento. Il vecchio padrino voleva dire: “Attento, io so…”. Lo diceva, lo faceva capire anche se magari non sapeva. Ma erano segni utili a mantenere il controllo della famiglia, a scoraggiare tradimenti. Racconto questo perché l’intervista rilasciata dalla figlia di Totò Riina è pregna di messaggi. Sono destinati all’interno di Cosa nostra, in un tempo che sta segnando la scalata della componente femminile dentro l’organizzazione, anche per le morti e i “fine pena mai”. Maria Concetta è la figlia più grande di Totò Riina, in viso è una fotocopia del padre. “Stessa stampa”, si direbbe in Sicilia. Quando era andata a vedere il padre appena morto, era stata durissima coi giornalisti, minacciandoli di ricorrere alla giustizia per tutelare la privacy. A distanza di poco, e di pochi giorni dal pasticcio fatto dal fratello Salvuccio con la droga, a Padova, la figlia di Riina si offre alle telecamere de Le Iene, e parla. Tanto.“Mio padre ha fatto comodo a tante persone…”. Come inizio non c’è male: tante persone. Naturalmente non le elenca, ma – come dicevamo – in Cosa nostra e dintorni non è necessario essere espliciti, soprattutto coi “dintorni”. E dalle cose che la figlia di Riina racconta del padre e della famiglia si può ben capire che i “dintorni” du ziu Totò erano tanti e altolocati. Lo nota l’amico Salvo Palazzolo su Repubblica quando “legge” le cose dette da Maria Concetta Riina sulla comoda latitanza del padre.
Segnale a Cosa nostra – ma anche ai “dintorni” – quando la più grande di Totò ci tiene a dire“Io non posso prendere le distanze da mio padre”. Come dire: state tranquilli…Per ora e fino a quando mi conviene essere prudente…Salvuccio magari., sapete come è fatto..ma io sono fatta della stessa pasta di papà…Se Salvuccio – libro a parte, quello presentato nel salotto di Vespa – aveva parlato un po’ troppo (“Papà li scannò tutti!” ), e fatto anche qualche cazzata, Maria Concetta è sul solco della tradizione, preferisce restare nel vago e affidare a Dio l’anima del padre: “Non lo so se era uno stinco di santo – dice – non lo devo giudicare io, sarà il Signore a giudicarlo…”. E le stanze del giudizio di Dio sono lontane, inaccessibili, sufficientemente distanti da quelle dei giudici terreni.
Interessanti e tutte da decifrare le cose che Maria Concetta Riina racconta del tempo della latitanza di papà: “Mio padre usciva da casa normalmente…Quando uscivamo li vedevamo i posti di blocco, ma non ci fermava nessuno…”. Non ci fermava nessuno. Questo è il “centro di gravità” del messaggio della donna di casa Riina. Maria Concetta – come osserva l’amico Salvo Palazzolo – “sembra voler dirci che suo padre aveva tanti complici all’interno delle istituzioni, che prima lo hanno protetto e poi lo hanno beffato”. Beffato? Torna l’ipotesi del tradimento, intanto di un uomo di Cosa nostra che “vende” il capo che se ne stava – sicuro – in una villa di Palermo, poco distante dalla rotonda della Circonvallazione, luogo dell’arresto. Infedeli al fianco del capo, e “infedeli” in quei “dintorni” che servivano a Riina, e che Riina teneva in pugno. Tra i misteri, il mistero dei misteri è nel giorno dell’arresto del boss, il 15 gennaio 1993.
Racconta la figlia: “Abbiamo raccolto le nostre cose, chiamato un taxi e siamo andati, mia madre e i miei fratelli, a Corleone…”. Nei buchi neri della storia d’Italia ci sono sempre strane, mancate perquisizioni. Una c’è anche nel mistero dei misteri d’Italia, l’affaire Moro. Ebbene, anche nell’affaire Riina, è Maria Concetta a ricordarci che dopo l’arresto del capomafia, nessuno perquisì la villa di via Bernini. “Abbiamo raccolto le nostre cose…”. Nelle “nostre cose” anche appunti e memorie di papà, quelli che gli servivano come assicurazione sulla libertà e sulla vita? Quelle carte sono nelle mani dei Riina o sono passate davvero nelle mani di Matteo Messina Denaro, come ha raccontato il pentito Giuffrè?
Certo, quella di Riina era una super polizza, e non è venuta fuori.
I messaggi trasversali della figlia di Riina su mafia e dintorni
In Cosa nostra e dintorni non è necessario essere espliciti, anzi più si parla in cifrato più risultati si ottengono. La figlia del boss parla a Le Iene
Onofrio Dispenza Modifica articolo
10 Dicembre 2017 - 17.51
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