La favola della decrescita felice e il futuro di Sardex

Quale può essere il futuro di Sardex?

La favola della decrescita felice e il futuro di Sardex
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14 Ottobre 2015 - 17.06


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di Adriano Bomboi

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L’assunto, di per sé, non farebbe una piega: i sostenitori della cosiddetta “decrescita felice”, sulla scia del pensiero di Boulding datato 1966, ritengono che una crescita infinita dell’economia in un mondo con risorse finite non avrebbe futuro. Poi invece una mattina si scopre che il capitalismo ha inventato i supporti ottici, che ci hanno consentito di non tagliare più milioni di alberi da carta. Non paghi di questo, osserviamo la nostra auto e ci rendiamo conto di avere un mezzo più sicuro, meno inquinante e meno energivoro di una Ford model T degli anni Venti. Ma non dannatevi neppure per la vecchiaia: nel mondo antico, pur in assenza di emissioni chimiche e con alimenti a chilometri zero, la vita media si aggirava sui 30 anni. Matt Ridley ci ricorda infine che la quantità di cibo pro-capite è aumentata del 30%, i prezzi sono più bassi e si usano meno pesticidi ed estensione di terra in rapporto a pochi decenni fa.

Insomma, la teoria della “decrescita felice”, giustamente contestata da economisti neoclassici e neoaustriaci, consiste in due limiti: il primo è l’errore di considerare la tecnologia derivante dal mercato in modo statico, come se questa non si evolvesse mai (ma è proprio la concorrenza insita nel mercato a creare innovazione e abbattimento dei prezzi, incrementando l’estensione del benessere). Il secondo è l’errore di non considerare la ricaduta di una limitazione della crescita, perché l’abbattimento generalizzato della produzione industriale comporterebbe automatiche riduzioni dell’occupazione. Di conseguenza verrebbe limitata anche la concorrenza e l’innovazione tecnologica che l’accompagna (tecnologia che a sua volta non limita l’occupazione, come invece sostengono i teorici della decrescita).

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Il mercato dispone già di uno spontaneo strumento di regolazione sui beni finiti e/o prossimi alla fine: è il prezzo, che salendo ne ridurrebbe le acquisizioni, orientando gli operatori in altre direzioni.

Teniamolo a mente: i dati della Banca Mondiale, ma anche gli studi di un premio Nobel come Ronald Coase, e tanti altri autori, hanno dimostrato che negli ultimi decenni, grazie alla globalizzazione, un miliardo di persone è uscita dalla miseria. La ricchezza infatti non è una torta da spartire: si crea. La diseguaglianza non si riduce sottraendo ricchezza a chi l’ha prodotta per fare assistenzialismo e cronicizzare i problemi dei poveri, ma facendo si che chi non ne ha sia posto nelle condizioni di farsene una propria. Tuttavia il limite a questo intento non deriva dal capitalismo ma dall’azione dei governi. Si tratta di un assunto su cui converge anche il Nobel 2015 per le scienze economiche Angus Deaton (non uno spietato liberista), ma soprattutto William Easterly.

In futuro l’agricoltura dei nuovi OGM che consumano poca acqua ed estensione di terra potrebbe salvare dalla fame la sovrappopolazione mondiale, ma considerando che la madre degli anti-capitalisti è sempre gravida, ciò potrebbe avvenire non tanto presto: in Sardegna è pressoché ignoto il nome di Giorgio Fidenato, informatevi sulle peripezie del suo progetto agricolo e vi metterete le mani sui capelli!

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Ciò premesso, i limiti alla ricerca non devono stupirci, la storia umana è costellata di mode, teorie, religioni e ideologie che in nome della “pubblica felicità” hanno rallentato ed oscurato il progresso scientifico per secoli. La stessa vicenda delle emissioni Volkswagen è un esempio di come stringenti leggi determinate dall’ideologia abbiano superato quelle della tecnologia, con gravi rischi per tutto l’indotto.

A livello locale l’ideologia del comunitarismo terriero, diffusa da intellettuali come Eliseo Spiga, è figlia dello stesso dogmatismo, con la sua pretesa assurdità di valorizzare un’epoca pre-capitalistica in cui l’autosufficienza agroalimentare esponeva costantemente le popolazioni locali a carestie e malattie.

Eppure, c’è un ramo in cui gli annoiati teorici della decrescita non sembrano avere torto, e riguarda l’ausilio delle monete complementari o alternative, in grado di aiutare l’economia anche in tempi di crisi (nell’isola abbiamo il Sardex). Tali valute hanno il merito di dinamizzare l’incrocio tra la domanda e l’offerta di beni e servizi.

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Molti amici progressisti ignorano che nel 1976 l’economista Friedrich von Hayek scrisse il trattato su “La denazionalizzazione della moneta”. L’autore intuì, alla vigilia dell’idea dell’euro, che uno dei sistemi con cui prevenire le crisi economiche – causate dalla politica che espande l’inflazione per creare consenso e clientelismo – sarebbe stato quello di mettere in concorrenza anche la moneta. Immaginando un sistema aperto di competizione tra diverse valute, agganciate ad un riferimento reale, non garantito solo dallo Stato, come l’oro. Tali monete avrebbero sottratto alla politica i danni derivanti dal monopolio della sovranità monetaria (pensiamo alla recente crisi statunitense, quando la FED, nel 2008, per salvare banche e occupazione, mise in circolo liquidità pari a 3mila miliardi di dollari, ottenendo solo 70mila nuovi occupati. Ogni nuovo occupato costò mediamente sui 43 milioni di dollari, una follia neokeynesiana).

Va detto tuttavia che il nostro Sardex non corrisponde ai requisiti indicati da Hayek, perché tale moneta elettronica, complementare, non è del tutto alternativa in quanto si aggancia all’euro con l’unico obiettivo di scambiare beni limitatamente al circuito dei partecipanti. Né infatti può essere paragonata ad una criptovaluta come il Bitcoin.

E allora quale può essere il futuro di Sardex? In che modo, nel medio e lungo periodo, potrebbe incrementare il proprio giro d’affari?

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E’ chiaro che l’esistenza di un’economia assistenziale come quella sarda non aiuta lo sviluppo di questa moneta elettronica. Neppure la sua eventuale o ipotetica evoluzione valutaria. Non ci vuole un esperto del calibro di Hayek per comprendere che in un territorio in cui il 65/70% della ricchezza è “prodotta” dal settore pubblico, gli spazi commerciali con cui dei privati potrebbero affiliarsi al circuito Sardex rimarranno pressoché circoscritti agli operatori già esistenti (almeno finché durerà la fiducia).

In un contesto simile, come tanti (im)prenditori diffusi in Sardegna, più a caccia di sussidi pubblici che di reali spazi con cui far emergere le proprie imprese, i promotori di tale valuta sarebbero tentati di ricorrere alla politica come strumento per massimizzare e consolidare il loro lavoro, facendosi sedurre dalla presunzione fatale di ricercare nelle commesse offerte dalla pubblica amministrazione quegli strumenti finanziari con cui “estendere” il proprio business. E bisogna purtroppo constatare come Sardex si sia già rivolta a programmi di intervento para-pubblici, da cui, nonostante il meritorio successo attuale, non arriverà nulla di buono. Infatti la pubblica amministrazione non produce ricchezza, si limita a drenare, redistribuire (male), e soprattutto sperperare, quella prodotta dall’esiguo settore privato.

Purtroppo nel quadro che abbiamo di fronte, l’indipendentismo sardo, diviso tra sovranisti keynesiani (da un parte) e radical chic politicamente incapaci (dall’altra), non pare in grado di offrire seri contributi al dibattito.

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La grande crescita di Sardex, mi auguro, avverrà nel momento in cui i suoi promotori comprenderanno di avere enormi potenzialità davanti a sé, riflettendo sul fatto che l’ulteriore crescita del proprio circuito è inversamente proporzionale alla riduzione dell’interventismo politico nell’economia dell’isola. O, in alternativa, quando si faranno garanti di una politica riformistica incentrata su questi presupporti, e dunque completamente diversa da quelle sinora osservate.

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