Denti, foto, tatuaggi: così diamo un nome ai migranti morti in mare
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Denti, foto, tatuaggi: così diamo un nome ai migranti morti in mare

In Italia funziona l’unico protocollo europeo per l’identificazione dei corpi dei naufraghi. Ci lavorano il Commissario persone scomparse e la Statale di Milano.

Denti, foto, tatuaggi: così diamo un nome ai migranti morti in mare
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19 Agosto 2015 - 16.12


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I primi in Europa. Nessun altro Paese membro dell’Unione ha affidato ad un prefetto il ruolo di dare un nome ai cadaveri non identificati. Non solo di chi perde la vita in Italia, ma anche di chi muore cercando di raggiungerla. A svolgere questo difficile compito dal 30 dicembre 2013 è Vittorio Piscitelli, ex prefetto di Reggio Calabria. “Sarebbe importante che anche la Commissione europea adottasse una figura simile – afferma -. Siamo ancora un continente dove le persone scompaiono”. Soprattutto quando s’imbarcano dalle coste del Nord Africa e si dirigono a Nord.

Il recupero delle identità è reso molto difficile dall’assenza sia a livello nazionale sia comunitario di una banca dati unica sui cadaveri senza nome che si trovano negli obitori. Senza un metodo comune, il riconoscimento spetta al coraggio dei singoli procuratori che devono prendersi l’onere di investire per fare le verifiche necessarie a scoprire l’identità del deceduto. Che sia un migrante naufragato in mare o un senza dimora morto per il freddo. E la Corte dei conti e gli altri organi di vigilanza chiedono poi conto di quanto spendono le procure per queste singole attività.

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Nove mesi dopo il suo insediamento, Piscitelli ha siglato un protocollo d’intesa con l’Università Statale di Milano per riconoscere i circa 400 cadaveri dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013. A luglio, il protocollo si è allargato per includere anche al naufragio del 18 aprile 2015: i morti si aggirano attorno agli 800. Un ultimo ritocco il 4 agosto, quando ormai è diventata chiara la necessità di rafforzare la collaborazione, visti i numeri degli scomparsi. “Abbiamo superato la ventina di cadaveri identificati dei naufragi di ottobre 2013 – spiega Piscitelli -. Su quello di aprile stiamo lavorando su 58 corpi degli 80 recuperati dalla Marina Militare e ne aspettiamo un’altra quarantina”.

Ad aggravare un lavoro già desolante, ci sono le difficoltà tecniche dei casi dei migranti. Il – Labanof, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università Statale a cui il Viminale ha affidato questo compito, ha già una grande esperienza. Ha dato un nome a cadaveri carbonizzati dell’incidente di Linate e alle vittime del conflitto nella ex Jugoslavia. “Il dna per noi è l’ultima spiaggia – racconta la responsabile Cristina Cattaneo -. Cerchiamo di riconoscere le persone attraverso vie secondarie, per evitare di esporre i parenti dei migranti a rischi”. Si svolgono così analisi di segni particolari, si fanno impronte dentali, si cercano tatuaggi e un confronto con le foto dei profili dei social network. Tutto però deve partire da una segnalazione di un parente. Usare il tampone dei parenti diretti, spesso ancora nei Paesi d’origine, è troppo pericoloso, oltre che complicato. In Eritrea soprattutto, dove il regime obbliga le famiglie con un migrante a pagare una tassa o compie ritorsioni contro i parenti di chi parte per i viaggi della speranza.

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Attraverso un network di ong
e la Croce rossa internazionale con cui Cattaneo collabora da tempo, l’Ufficio persone scomparse e il Labanof hanno organizzato già oltre 15 incontri con i parenti di persone scomparse. Sono 54 i parenti di migranti scomparsi già in contatto con le due strutture in Italia. Per riconoscere il proprio caro, i parenti devono sfogliare un book di fotografie dei cadaveri. Un’operazione straziante accompagnata da un’equipe di psicologi dell’Associazione psicologi per i popoli.

Polizia Scientifica, le Prefetture di Siracusa e Catania, la Cri, i medici legali delle Università di Palermo, Catania e Messina, l’ASP di Siracusa: sono sempre più numerose le realtà coinvolte nella ricerca delle identità perdute. “Siamo in contatto anche con l’ambasciata dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni e la Fondazione Migrantes che sono realtà che ci possono aiutare a recuperare i parenti delle vittime e far sapere loro che esiste in Italia una via protetta per cercare di ritrovare un proprio parente scomparso”, aggiunge Piscitelli.

E ora chiamerà a raccolta anche medici legali di altre università italiane. “L’esperimento del recupero delle identità post mortem funzionerà solo se si costruirà un database con tutte le informazioni centellinate negli obitori del Sud Italia. Si deve creare un unico metodo di raccolta dati”, conclude Cattaneo. Per chiunque stia cercando un parente scomparso o voglia aiutare dei migranti a ritrovare il corpo dei loro cari naufragati, la mail a cui rivolgersi è ufficiocommissario.personescomparse@interno.it (lb)

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