Migranti, che cosa succede a Pozzallo?
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Migranti, che cosa succede a Pozzallo?

La testimonianza di un gruppo di profughi siriani passati per il Cpsa in provincia di Ragusa: picchiati perché non volevamo rilasciare le impronte. [Stefania Ragusa]

Migranti, che cosa succede a Pozzallo?
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3 Giugno 2015 - 20.16


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di Stefania Ragusa

Lei, la bambina che vedete nella foto, è mia figlia. Loro sono profughi siriani di passaggio a Milano. Domenica scorsa, mentre ero a casa, alle prese con un’influenza fuori stagione e la mia bambina dormiva, mi hanno chiamato per segnalarmi la loro presenza. Erano passati dalla Turchia, avevano attraversato il mare, ed erano sbarcati in Sicilia il 20 maggio. Erano stati quindi portati nel centro di primo soccorso e accoglienza di Pozzallo, e lì era accaduto qualcosa che non avevano assolutamente messo in conto: ora volevano che questo qualcosa fosse conosciuto. Potevo raggiungerli?

Ho preso due antidolorifici, mi sono caricata la pargola in spalla e mi sono incamminata. Una volta raggiunto il mezzanino della Stazione Centrale, quello che ormai da molti mesi è diventato il punto di transito dei profughi siriani ed eritrei, quello che le istituzioni  avrebbero voluto repentinamente chiudere per non appannare la vetrina dell’Expo e che poi è stato fortunatamente riaperto, mi è tornato a esser chiaro quanto possa essere emozionante e sensato  il mestiere del giornalista, quando lo si riporta alla sua essenza: raccontare quel che rischia di non uscire mai dall’ombra, dare voce a chi non ce l’ha.

A Pozzallo Alaaeddin Alfarhat e Ismail Muhamad mi hanno detto di essere stati portati in una stanza e picchiati perché, sapendo che questo li avrebbe costretti a chiedere asilo in Italia, per effetto di Dublino, non volevano che fossero loro prese le impronte.

Jwad Kathan, Mhmuod Iskay, Amer Ismail e altri, quando hanno capito cosa stava succedendo, hanno iniziato una protesta, chiedendo diritti e rispetto. Ad Alaaddin e Ismail Muhamad le impronte sono state prese. Ma loro hanno deciso comunque di non fermarsi in Italia e di partire per raggiungere i parenti che vivono altrove.

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Quelle che seguono sono le loro parole. E ringrazio l’amico siriano Sam Mouazin per averle tradotte per noi. Potete anche ascoltarle in video. Queste parole confermano, ahimè, i timori espressi nell’esposto che un gruppo di attivisti ha presentato a inizio maggio e anche nell’interrogazione, nata da quell’esposto, presentata dall’europarlamentare Barbara Spinelli al Parlamento Europeo. Spetterà alle autorità competenti, adesso, fare gli accertamenti del caso.

La foto della mia bambina che gioca con i profughi è stata scattata a fine intervista. Vederli ridere insieme, in una parentesi di normalità, mi ha riempito di gioia. E credo che incontri come questi non possano che fare bene anche ai piccoli.

Alaaeddin Alfarhat (in Siria faceva l’imprenditore): «Il 20/05/2015 eravamo in acqua, abbiamo chiamato la guardia costiera italiana, ma nessuno parlava arabo, perciò abbiamo dovuto chiamare un’attivista di cui avevamo il contatto, raccontarle l’accaduto e chiederle di intervenire. Dopo 4 /5 ore la guardia costiera è arrivata. Noi avevamo una bandiera italiana e l’abbiamo sollevata. C’era un elicottero che volava sopra di noi e ci filmava. Sono arrivate le imbarcazioni e ci hanno tratti in salvo, portandoci a Pozzallo».

Ismail Muhamad: «Dopo che ci hanno portato lì, hanno cominciato a prendere le impronte digitali. Noi abbiamo rifiutato di rilasciare le impronte perché sapevamo che, in questo caso, saremmo stati costretti a presentare la domanda di asilo in Italia e a fermarci in questo Paese. Allora hanno preso me e questo ragazzo che è vicino a me e altri e ci hanno portato dentro. Ci hanno interrogato e ci hanno chiesto chi fosse l’attivista alla quale ci eravamo rivolti, che rapporto avessimo con lei e perché non se ne andasse a svolgere questa sua attività al suo paese, ossia il Marocco, invece che in Italia (si tratta di Nawal Soufi, conosciuta come l’Angelo dei siriani, ndr). Intanto noi continuavamo a rifiutare di dare le impronte. A questo punto hanno preso una telecamera e ci hanno portato in un ufficio, dove cono molta pacatezza ci hanno spiegato quali fossero i nostri diritti e cosa prevedeva la legge italiana. Dopo di che hanno chiuso le telecamere e hanno iniziato a picchiarci. A me hanno messo le manette e le hanno chiuse schiacciandomi i polsi con i piedi. Guardate qui. I segni si vedono… Alla fine hanno preso le impronte con la forza. Quando sono uscito, sono andato in un ufficio dove c’era un presidio di Medici Senza Frontiera e ho chiesto di fare un report su quello che mi era accaduto. Mi hanno risposto che, se lo avessero fatto, lo avebbero dovuto consegnare alle medesime persone che mi avevano picchiato e che dopo non sarebbe più stato consentito al loro presidio di stare lì e loro non avrebbero più potuto prendersi cura dei bambini che arrivavano».

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Jwad Kathan: «Io facevo il poliziotto nel mio paese e non abbiamo mai trattato le persone come ho visto fare qua. Noi che siamo fuggiti dai nostri paesi abbiamo visto qua un trattamento che non avremmo immaginato possibile nemmeno per i criminali o gli animali. Trattamento molto cattivo. Ci buttavano il cibo addosso, tra urla e insulti. Ci hanno spinti, urlando. Ci hanno picchiato».

Mhmuod Iskay (è venuto con la famiglia, in Siria faceva il cuoco): «Quando abbiamo visto quello che stave accadendo, ossia che veniva usata la forza contro quelli che erano stati portati via, siamo rimasti scioccati. Eravamo in 350 sulla barca. C’erano 102 bambini. In prevalenza eravamo famiglie con I bambini. Di fronte a quello che abbiamo visto abbiamo reagito con una sorta di manifestazione spontanea. Chiedevamo diritti umani e democrazia. Abbiamo chiesto anche di quell’attivista e la polizia si è arrabbiata ancora di più. Mio figlio di 3 anni era nudo dalla cintola in giù. E’ rimasto senza pantaloni per tre giorni. A furia di gridare e e manifestare, io ho perso la voce. Poi ci hanno portato in un altro centro di accoglienza, a Mineo. E lì siamo stati trattati in un modo completamente diverso. Ci hanno dato vestiti, farmaci, scarpe. Shampoo, dentifricio. La tuta che indosso me l’hanno data loro. E incomprensibile questa differenza. Pozzallo sembrava un centro di detenzione, non di accoglienza».

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