Dal 1983 ad oggi sono state confiscate quasi 2 mila aziende alle mafie italiane. Peccato che oggi ne restino in piedi meno di due su dieci: il 60 per cento è in liquidazione, un altro 10 per cento è già fallita. Le altre sono aziende che rischiano fallimento e liquidazione e che ormai non sono più produttive. È quanto emerso da un’analisi dei dati raccolti dal centro Transcrime dell’università Cattolica. Allo stato dell’arte, commenta il direttore del centro Ernesto Savona, “ci perdono tutti: lo Stato che non incassa le tasse e non rende produttivo il bene e soprattutto i lavoratori che perdono il posto”. Di chi è la colpa di questa situazione disastrosa? Una parte ricade su una gestione del bene fatta dall’Agenzia nazionale per i beni confiscati, nell’occhio del ciclone dopo che il direttore Giuseppe Caruso, negli ultimi mesi, ha sostituito alcuni dei più noti amministratori giudiziari nominati dalle sezioni “Misure di prevenzione”. “Abbiamo pagato amministratori perché facessero fallire le aziende invece che mantenerle”, attacca Savona. Poca gestione manageriale e troppa burocrazia: questi due elementi combinati insieme hanno portato a questa pessima situazione. Secondo i dati di Transcrime, in media la liquidazione sopraggiunge dopo tre anni dalla confisca definitiva, che in alcuni casi richiede anche 15 anni.
“Dovremmo rendere l’approccio ai beni confiscati razionale e non ideologico”, consiglia il direttore del centro Transcrime. Come? Ad esempio eliminando il tabù della vendita all’asta dei beni confiscati, che siano immobili o aziende: “Così aspettiamo che il bene diventi decotto e non sia più produttivo”, sostiene Ernesto Savona. “Chi ci perde di questa gestione è la collettività”. Oggi la consegna di un bene confiscato rischia di diventare un problema anche per le casse degli enti locali a cui vengono assegnati: “Spesso le aziende una volta che vengono confiscate sono completamente improduttive e nessuno sa che farsene né mantenerle”, aggiunge il professore. Se la gestione fosse affidata a manager piuttosto che ai commercialisti come accade oggi, si potrebbero già vedere dei risultati, argomenta Savona: “Oggi l’approccio è burocratico e non manageriale. Secondo il direttore del centro studi dell’università Cattolica, in questo modo si perde il valore sociale del riutilizzo di un bene e si ottiene come unico effetto la perdita di posti di lavoro.
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