Aveva 78 anni, essendo nato a Roma il 4 marzo 1930. Militante comunista, già al Liceo Tasso che la guerra non era ancora finita e c’era la Resistenza e lui in mezzo a loro. Molti anni dopo in Rifondazione comunista con Bertinotti ma prima, durante e dopo, fu giornalista. Si parla qui di Sandro Curzi, morto il 22 novembre di cinque anni fa. Il 22 novembre di dieci anni prima aveva firmato il suo primo editoriale su Liberazione.
Era adolescente quando scrisse sull’Unità “clandestina” per raccontare l’assassinio di uno studente da parte dei repubblichini, capo redattore nel mensile della Fgci “Gioventù nuova”, diretto da Enrico Berlinguer, fino alla vice direzione di Paese Sera, alla direzione del Tg3 e a quella di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, dal novembre del 98 al settembre del 2004. Quando un tumore se l’è portato via era consigliere d’amministrazione della Rai.
Inviato nel ’51 nel Polesine per raccontare le conseguenze dell’alluvione, vi rimane come segretario della Fgci. Nel ’56 fonda “Nuova generazione” e nel ’59 passa all’Unità, organo del Pci per il quale l’anno successivo viene inviato in Algeria per seguire la guerra di indipendenza. Lì intervista il capo del Fronte di Liberazione Ben Bellah.
Dopo essere stato caporedattore dell’Unità, nel 1964 diventa responsabile stampa e propaganda della direzione del Pci. Negli anni ’60 collabora fra l’altro alla crescita della radio “Oggi in Italia” che trasmetteva da Praga ed era seguita in molte parti d’Europa da emigranti italiani. Dal ’68 e poi negli anni 70 Curzi fu vice direttore di Paese Sera finché non arrivò in Rai nel 1975 con un bando di concorso indetto per l’assunzione di giornalisti di “chiara fama” disposti a lavorare come redattori ordinari e comincia dal Gr1 diretto da Sergio Zavoli per arrivare tre anni dopo al Tg3 di cui diviene direttore nel 1987 dando a quel telegiornale la propria impronta inconfondibile, quella di Telekabul.
Il suo ultimo viaggio sarà nella piazza michelangiolesca del Campidoglio, spazzata dal vento gelido, tra applausi e pugni chiusi alzati al passaggio dell’auto funebre. La figlia Candida aveva dato il via alla commemorazione leggendo le parole commosse di Pietro Ingrao. Seguiranno gli interventi di Walter Veltroni, Fausto Bertinotti, Claudio Petruccioli e, infine, il ricordo del compagno di sempre, il regista Citto Maselli. Sguardo incrinato dalle lacrime e il pugno alzato, nel silenzio della Protomoteca gremita all’inverosimile rotto ogni tanto dagli applausi. Piangeva e sorrideva la gente al funerale, l’ultima “conferenza stampa”, del popolare giornalista.
Ecco quello che disse quel giorno Citto Maselli: «Voglio solo salutare Sandro con alcuni ricordi della nostra vita. Voglio salutarlo dicendogli della mia insanabile invidia per il suo, per me misterioso, successo con le ragazze nelle sezioni del partito comunista di quel primo dopoguerra romano, quando portavamo il grammofono a manovella e i dischi di jazz a 78 giri per i balli domenicali. Non ho mai capito cosa avesse di diverso da me per piacere tanto e subito alle ragazze. Bello non era ed aveva tutti i capelli neri e dritti. E non ero il solo a soffrirne, c’erano anche Aggeo Savioli e Ennio Polito, Claudio Astrologo, Carlo e Sergio Bertelli che erano iscritti alla sezione Esquilino in via Bixio, piena di compagne belle e intelligenti, attive, straordinarie.
Tra noi tutto era cominciato nel primo ginnasio, al Tasso. Sandro raccontava quando, nell’estate del ’42, mi sentì parlare di Marx per la prima volta e del Manifesto dei comunisti. Fatti i conti, avevamo lui dodici anni e io undici e mezzo. Da questa precocità un po’ tipica di quegli anni, si spiega com’è che partecipammo poi tutti e due adolescenti alla Resistenza e come diventammo comunisti iscrivendoci subito dopo la Liberazione al Pci. Iniziando così insieme una lunga storia di comunisti finita per Sandro solo ieri.
A Sandro voglio dire anche quello che ho imparato da lui. Ricordo che noi eravamo in due sezioni diverse: io alla Ludovisi in corso d’Italia e Sandro alla sezione Flaminio scatenato a lavorare con i profughi ammassati al campo Parioli. Perché a noi figli di borghesi il partito ci mandava a farci le ossa nelle zone più difficili e negli ambienti più popolari. Bene, in rapporto con quelle realtà particolari, di disperati, Sandro si mise in contatto con i compagni di “bandiera rossa” che era come dire con i compagni trotzkisti. Io feci di tutto per dissuaderlo, e tuttavia, oggi glielo posso dire, fu per me una lezione profonda di libertà.
Voglio ricordargli anche delle nostre paure, un po’ infantili, e di quella volta che lui raccontava sempre, di quando con Stefania siamo andati a sentire il suo comizio nel Mugello. Finita la manifestazione lo portarono a dormire in una grande villa vuota, in una stanza enorme, dentro un enorme letto nero a baldacchino. E lui ci disse: “Che fate mi lasciate qui da solo? Io ho paura”.
E noi restammo con lui, arrangiati su un divano.
Voglio raccontare di come si illuminava e cambiava faccia quando vedeva le persone a cui voleva bene.
Voglio ricordare le nostre chiacchierate. E’ uscita sul Foglio una serie spiritosissima di caricature sulle nostre telefonate mattutine. Me le leggeva al telefono e ci divertivamo moltissimo. Non erano così vere e non certo alle sette di mattina. Ma era vero che discutevamo insieme delle cose per noi importanti che faceva lui e che facevo io.
Non a caso domenica scorsa, in clinica, passammo la metà del tempo a parlare del mio ultimo film e io a sentire i consigli calorosi e appassionati che mi dava su un finale che voleva fosse in qualche modo positivo. Perché, diceva, noi comunisti dobbiamo dare, proporre una speranza.
Siamo stati sempre insieme, dalla stessa parte, in tutte le battaglie dentro il Pci e poi dentro Rifondazione comunista.
E allora voglio salutarlo ricordando quello che mi ha detto quest’anno a Venezia: che voleva lottare con tutte le sue forze contro la malattia perché in questo momento bisognava esserci, perché questo era il momento di combattere. Con la sua testa libera, di comunista».