Non solo marò, fu guerra intorno alla Lexie?
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Non solo marò, fu guerra intorno alla Lexie?

«Ammuina» diplomatica caricaturale che rimuove i fatti. Quanti militari o mercenari armati o pescatori in guerra attorno alla Lexie? Inchiesta di Globalist. [Ennio Remondino]

Non solo marò, fu guerra intorno alla Lexie?
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26 Marzo 2013 - 20.00


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di Ennio Remondino

Quel mare da Far West. Chi spara per primo vince. Non c’è mercantile di valore tra i 23mila che ogni anno attraversano le acque tra l’Oceano indiano e il canale di Suez che non sia armato per autodifesa. Una missione navale antipirateria Nato, “Ocean Shield”, e una dell’Unione europea, “Atalanta”, e molto altro. Allora, 15 febbraio 2012, poco altro si sapeva. Con il dramma dei due pescatori scambiati per pirati e uccisi quasi certamente da bordo della petroliera Enrica Lexie, esplode il caso delle presenze armate a bordo delle navi mercantili. Scoprimmo allora che l’Italia aveva scelto la strada ufficiale. Nuclei Militari di Protezione, gli NPM in sigla, vale a dire i marò imbarcati sulla Lexie e coinvolti nella tragica vicenda. Da dubitare che nelle “Regole di ingaggio” dei fucilieri di marina imbarcati fossero contenute le informazioni che seguono.

Nave greca e Contractors. La stessa notte dell’incidente che ha coinvolto la Lexie, anche la nave greca “Olympic Flair”, nello stesso mare di Kochi, denuncia un sospetto attacco di pirati. La curiosità del cronista spinge a qualche telefonata. Non serve molto ingegno. Chiamata satellitare al comandante della nave che si rifiuta di parlare. “Rivolgetevi all’armatore”. Alla Olympic Shipping & Management S.A. di Atene, proprietà a Panama, tale signor Siganakis, responsabile sicurezza, è ancora meno gentile. Passo alle mail, inserendo la formula magica. Perché tanta reticenza? chiedo. “A meno che non si voglia nascondere la presenza bordo della Olympic Flair di personale specializzato della compagnia di sicurezza privata ‘Diaplous Maritime Service’ con armamento compatibile con quello dell’evento attribuito all’Enrica Lexie”. Calibro Nato.

I segreti via Internet. Le notizie oggi basta volerle cercare senza neppure viaggiare troppo. E la “rivelazione” sulla Diaplous Maritime Service, che trovi con tanto di foto di bellicosi combattenti armati di Ak-47 o FN Mag, tutti calibro 5,56 Nato, apre le porte ora ad una cortesissima risposta. Divento “Dear Mr. Remondino” e vengo informato, tra l’altro che “No guns were used..”, che loro non hanno sparato e, soprattutto, che la ‘cittadella’ isolata di comando, come da norme internazionali da adottare nella zone di navigazione ad alto rischio, impiega guardie disarmate. “Citadel and employement of UNARMED -repeat UNARMED- guards to protect our vessel..”. La maiuscole sono loro, a sottolineare che erano disarmati, quindi non hanno sparato. Disarmati? Poco credibile, ma notizia allora era morta. Ora diventa semplice esempio di superficialità del Kerala.


“Disarmati” sino ai denti.
Le regole, se ci sono. L’allora segretario di Stato Usa Hillary Clinton, nel 2011 lancia la nuova strategia dell’amministrazione Obama. “Promuovere l’utilizzo dei così detti ‘Privately Contracted Armed Security Personel’ sulle imbarcazioni mercantili”. I famigerati “Pcasp” di Iraq e Afghanistan. Più chiaro ancora (novembre 2011), Andrew J. Shapiro, consigliere per gli affari politico-militari Usa. “Recentemente incoraggiato l’imbarco di team armati [. . .] il diffuso impiego di tali team su imbarcazioni commerciali è la principale ragione del declino del numero di azioni di pirateria che si concludono con successo”. Tale consiglio, si precisa altrove, non costituisce una raccomandazione. Raccomandato invece l’impiego dei “Nuclei Militari Armati di Protezione”, gli sfortunati Marò in missione NMP. L’Italia sceglie quella strada e pasticcia.

Comando civile o militare? I militari possono operare sui mercantili privati in azione antipirateria grazie ad un decreto del luglio 2011. Gli armatori pagano alla Difesa per la protezione armata delle loro navi. Leggiamo che l’ex capo di stato maggiore della Difesa Vincenzo Camporini attribuisce proprio a quel decreto l’inizio della catena degli errori. La questione elementare del chi comanda. Certamente il comandante civile in navigazione, ma quando si spara? E’ il quesito chiave: la Lexie al momento dell’incidente naviga in acqua internazionali. Le autorità indiane ci provano e “Ordinano” alla Lexie di far rotta sul porto di Kochi. Certamente si aspettavano un bel “Bye bye”, e invece. Chi ha deciso-ordinato alla Lexie di entrare nelle acque indiane? L’armatore, il comandante o qualche autorità marittima italiana con divisa e stellette? A Globalist questo risulta.

Mercantili corazzati. In attesa che il ministro-ammiraglio Di Paola spieghi in Parlamento, un utile promemoria per spiegare cosa può voler dire navigare in quei mari con le disposizioni della International Maritime Bureau. 1. Sorveglianza rafforzata e visori notturni. 2. Struttura protettiva del ponte della nave. 3. Ricorso a barriere fisiche come filo spinato -notare il dettaglio- anche elettrificato. 4. Uso di cannoni idrici. 5. Utilizzo di allarmi quali sirene. 6. Manovre antiabbordaggio della nave. 7. Allestimento di cittadelle, aree protette dette “agghiaccio timone” dove blindare l’equipaggio ad abbordaggio avvenuto, mantenendo il controllo della nave. Sembra un vero e proprio manuale di guerra. E di guerra si tratta nella “High Risk Area”. Nonostante l’India preferisca parlare di offesa diplomatica e di diritto violato più che di pirateria non adeguatamente contrastata.

Oceano a mano armata. Segnalazioni marittime internazionali danno l’allerta sui “casi di criminalità marittima”, furti a rapine per intenderci, su navi attraccate nelle rade del porti tra Kochi e Trivandrum. Navi ferme bersaglio della criminalità locale su piccole imbarcazioni. Ma c’è di più. Da quelle parti è in corso una guerra marittima mai dichiarata ufficialmente. Diritti di pesca e di trivellazione per estrazione di petrolio tra India e Sri Lanka. Versioni contrastanti tra i due Stati, ma una cifra risulta certa: nel solo 2010 da parte indiana sequestrati 57 pescherecci singalesi e 322 pescatori. Lo Sri Lanka ha confiscato 29 pescherecci indiani e arrestato 144 pescatori. Solo nei primi due mesi del 2012, altri 112 incidenti con 605 uomini coinvolti. Persino le vacanziere Maldive arrestano 11 pescatori partiti dal Kerala. Morti in quantità. Peggio del mare della Tortuga.

Pescatori combattenti. La stampa locale, sulle pagine web dei gionali dà ovviamente la sua versione di parte “nazionale”, ma i fatti sono incontestabili. 1. Si parla di guerra del “Tonno”, la preda privilegiata della pesca in quei mari, ma ci si combatte anche -lo abbiamo visto sopra- per il petrolio nei suoi fondali. 2. A sparare in quei mari sono in molti, per molte ragioni, con armi diverse, ma quasi tutte col calibro privilegiato che gli specialisti conoscono come “5,56 Nato”. Il calibro delle armi dei Marò, le mitragliatrici “FN Minimi” in uso di Italia, Grecia e Sri Lanka. Guarda caso. L’india preferisce l’ “Insas”, stesso calibro 5,56 Nato adattato sul datato ma universalmente noto AK-47 Kalashnikov. Un bel pasticcio insomma, in cui le indagini e gli accertamenti balistici avrebbero un ruolo decisivo sulla vicenda Lexie. Perizie mai rese compiutamente note e pretese blandamente.


Una polizia poco curiosa.
Il giornalismo povero del web ha provato, come abbiamo raccontato, a ficcare in naso in giro. Le autorità marittime dello Stato di Kerala sono state meno curiose. E quelle italiane? Tanta diplomazia e pochi impiccioni, almeno ufficialmente. Nessuno ha raccolto dati sulle navi presenti attorno alla Lexie e all’affollato peschereccio St.Antony, con ben 11 persone a bordo? Chi c’era, oltre alla petroliera greca che ha denunciato un assalto a poche miglia dalla Lexie? Quanti pescherecci attorno? E qualche spiegazione in più sul contenzioso armato con lo Sri Lanka per la guerra del tonno e del petrolio. Pesa su tutto la morte di due pescatori. Doverosa la ricerca di responsabilità nel drammatico incidente, come già stava facendo il tribunale militare a Roma. Sulla vicenda pesa una forte percezione di torbido, come se tante manovre fossero fumo, nebbia per nascondere.

L’Ammuina dell’ammiraglio. In attesa del dibattito parlamentare promesso dal governo uscente, la conclusione più centrata ci viene da un commento sul pezzo precedente fatto da Globalist. Scrive il nostro amico Federico Klausner dalla Svizzera: “L’Italia ha fatto l’idiozia iniziale: se davvero la Lexie si trovava in acque internazionali, non avrebbe dovuto seguire le navi da guerra indiane nè sbarcare i marò. Che sarebbe successo? sarebbe stata presa a cannonate? gli indiani avrebbero lanciato un arrembaggio? in ciascuno dei due casi avrebbero violato accordi internazionali. Invece abbiamo ordinato al capitano di seguirli docilmente, che in altre parole è come avere accettato la loro giurisdizione. Poi abbiamo indennizzato fuori tempo le famiglie delle vittime: è sembrato volerle comprare, non conoscendo affatto l’orgoglio dei poveri”.


Conclusione e suggerimenti.
Ancora Klausner. “Successivamente abbiamo provato la furbata di sottrarli, nonostante un impegno formale dell’ambasciatore al ritorno. Ancora sottovalutando l’orgoglio nazionalistico e le vicende politiche in cui l’episodio si è innestato. Ma è bastata la voce grossa dell’India e la minaccia di una rappresaglia economica per renderglieli con la coda tra le gambe. Però abbiamo ottenuto la garanzia della loro ‘non condanna a morte’… Dilettanti allo sbaraglio [. . .]”. In più, l’antico vizio italiano, per cui più dei fatti, niente affatto limpidi, contano le apparenze e le conseguenze “politiche”. Ora, il ministro-ambasciatore Terzi ha molto da spiegare e da gustificare, ma altrettanto ci aspettiamo dal ministro-ammiraglio Di Paola, per sapere chi diede l’ordine alla Lexie di entrare nelle acque indiane. Salviamo la verità, non le carriere.

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