di Giulietto Chiesa
È già divenuto banale, scontato, dire che le dimissioni di Benedetto XVI sono un evento storico. Tutti i rimandi alla straordinaria storia del papato ci dicono che siamo di fronte a una svolta destinata ad avere grandissime ripercussioni sui sentimenti e le emozioni di un miliardo di persone in ogni angolo del pianeta, e perfino sui rapporti di forza politici e finanziari che si dispiegano in varie aree cruciali del mondo. Perché questa Chiesa cattolica è certo luogo di fede e di speranza per milioni, ma è molto di più centro di potere. Credo che abbiano ragione coloro che ritengono che questo dramma sia il risultato di una evidente crisi politica che ha il suo epicentro nel “sistema” dei corridoi vaticani. Una crisi virulenta, immediata e gravissima, che non ammetteva dilazioni. Un gesto quasi obbligato. Non c’è bisogno di ricordare il lungo rosario di scandali italiani, bancari in primo luogo, che hanno costellato il percorso di questo Papa. C’era e c’è del marcio in Vaticano. Lo Ior, Istituto per le Opere di Religione, e i suoi rottami, erano da tempo un bubbone maleodorante che infettava ogni mossa della Chiesa cattolica.
Lo scandaloso comportamento dei cardinali “capi” verso il potere politico italiano, il mercimonio praticato per anni con un “delinquente abituale” capitato, non per caso, alla testa del governo della Repubblica, il silenzio prolungato (quando non l’aperta e rivoltante complicità) verso il corruttore dei costumi e della pubblica morale italiani, tutto questo era ormai divenuto tanto visibile da apparire uno “scandalo” anti-evangelico. Masse di fedeli italiani non potevano ignorare le esibizioni dei cardinali che guidavano la danza.
Un “basso impero” vaticano faceva da specchio ai bassifondi della prostituzione pubblica e privata dell’Italia berlusconiana e della corruzione del Palazzo inteso nel suo complesso.
Joseph Ratzinger, probabilmente, era estraneo a gran parte di questi giochi di potere. Dai quali è stato soverchiato. Se “ha deciso” di andarsene non è certo per motivi di salute. O ha scelto di rompere lui, o è stato costretto a rompere. Ma tensioni che creano una rottura così clamorosa debbono essere enormi e irreversibili. Dunque non correrà troppo tempo perché esse emergano alla luce. Certamente per gradi. Ma si è rotta una immensa diga e il liquame dovrà uscire. Forse Ratzinger ha preferito mettersi al riparo.
Ma non è di questa crisi che voglio parlare. Ne intuisco i contorni, per le faglie strutturali che traspaiono, ma non ne conosco i dettagli. E credo più utile aspettare che essi vengano fuori da soli.
Intendo parlare di una crisi assai più vasta, devastante, strategica che è in incubazione da un tempo molto più ampio degli otto anni del papato di Benedetto XVI.
Una crisi che era già percepibile durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, ma che era stata coperta e resa invisibile dal suo carisma, dalla sua potenza fisica, dal mito che egli aveva costruito attorno a sé e che il mainstream mondiale aveva attivamente contribuito a costruire.
Giovanni Paolo II era una “star”. E, in quanto star, era parte integrante della società dello spettacolo. Un totem che sovrastava una chiesa stracca e senza slancio. Poi c’era il condimento ideologico: il trionfatore sul comunismo, colui che aveva collocato la Chiesa cattolica nel solco della vittoria dell’Occidente. Non era solo fumo negli occhi: era, fu, un fungo atomico di propaganda spettacolare. Ma, nei suoi 26 anni di pontificato, Wojtyła non fece nulla per mettere ordine nella Curia romana. Arrivare dopo un tale Papa sarebbe stato dunque difficile per chiunque, sotto ogni profilo.
Forse fu questa una – non l’unica – delle ragioni per cui il conclave di 8 anni fa decise di elevare al soglio pontificio il più vecchio candidato tra quelli esaminati dai concilii che si sono tenuti dal lontano 1730: avere un papa “breve”. Abbastanza per prendere respiro e consentire al Vaticano di riprendere la rincorsa. Volevano un papato di transizione e l’hanno avuto. Ma la velocità della crisi mondiale (non solo di quella vaticana) è stata troppa per un gigantesco organismo abituato a muoversi con pachidermica lentezza.
Adesso si dirà che Ratzinger ha dovuto fronteggiare scandali che non erano suoi. Le prime falle si erano già palesate con Wojtyła sul trono di Pietro: l’esplosione degli scandali sessuali, della pedofilia del clero in Irlanda e negli Stati Uniti. Ma l’ esplosione venne con Benedetto XVI: in Belgio, Austria, Olanda, Norvegia, Germania, ancora Stati Uniti.
Si dirà anche che tutti i tentativi di lanciare messaggi al mondo moderno, effettuati dal Papa che si dimette, si sono rivelati clamorosamente inadeguati: dalle gaffes verso gli ebrei, a quelle verso l’Islam. Ma non fu il primo papa a fare gaffes. Per qualche gaffe un vicario di Dio in terra non si dimette.
Il fatto più rilevante, mi pare, è contenuto simbolicamente nel nome che Ratzinger si scelse al momento della sua elezione: Benedetto. Un richiamo esplicito al santo Benedetto da Norcia patrono d’Europa. Ratzinger, cioè, si proponeva la riconquista dell’anima religiosa europea. Era l’Europa il centro dei suoi pensieri, il suo obiettivo principale. In una organizzazione che da oltre 2000 anni fonda il suo potere sui simboli, un tale segnale non poteva essere sottovalutato. Ma era, esso stesso, il segnale di una sconfitta storica, irrimediabile, di una ritirata strategica.
Negli stessi anni del suo pontificato Joseph Ratzinger avrebbe assistito, insieme a tutti noi, al trionfo della globalizzazione e all’inizio della sua fine. Allo spostamento dei centri del potere mondiale fuori dall’Europa e dall’Occidente. Uno sconvolgimento che non fu previsto, e neppure visto. E la Chiesa educatrice, la Chiesa della catechesi, fu soverchiata dalle nuove tecnologie della comunicazione, che predicano il vangelo del consumo, ben più potente ormai di quello del Cristo.
E la Chiesa si ritraeva clamorosamente nella cittadella che aveva dominato per secoli, incapace di qualsiasi proiezione, di qualsiasi slancio. Mentre chiese e seminari, e conventi europei si svuotavano, e quel poco che ancora restava e resta viene alimentato dai luoghi lontani e ancor miseri degli ex paesi del terzo mondo. Una Chiesa – quella di Ratzinger, ma anche quella di Wojtyła – incapace di affrontare le grandi sfide epocali di una transizione inevitabile, e dunque incline, per manco di afflato spirituale, a rifugiarsi nei meandri del potere occidentale. Un potere, per giunta, anch’esso in evidente declino.
Questa è la crisi di cui dovrà occuparsi il prossimo Papa di Roma.
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