La guerra fredda Turchia-Kurdistan
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La guerra fredda Turchia-Kurdistan

L’ambiguità di Ankara, l’opposizione delle frange più estreme del PKK la fanno da padroni in un conflitto che da decenni dissangua la Turchia.

La guerra fredda Turchia-Kurdistan
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19 Gennaio 2013 - 13.34


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di Andrea Ranelletti

Roma, 19 gennaio 2013, Nena News – Si complica la situazione nella regione semiautonoma del Kurdistan iracheno. Lo scorso mercoledì è giunta notizia di un raid effettuato da una pattuglia di F-16 turchi sulle montagne del Qandil, roccaforte-santuario del PKK.

L’azione militare è destinata ad allargare la frattura che divide la comunità curda, chiarendo ulteriormente come il crescente appoggio del governo turco al KRG (Governo regionale curdo) abbia l’intento di isolare e depotenziare il PKK. L’offensiva rende ancora più complessa la situazione nella scacchiera curda, vanificando i flebili effetti delle aperture al dialogo di Ankara e dei negoziati di pace che per la prima volta coinvolgono il fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan.

Diyarbakir, città di 500mila abitanti nell’Anatolia Sud-Orientale, è in questi giorni epicentro delle cronache del conflitto: dalle sue basi militari sono partiti gli F-16 che hanno bombardato le montagne del Kurdistan iracheno per distruggere i bunker dove sono asserragliati i capi del PKK. Ankara ritiene che oltre duemila militanti del partito si nascondano nell’area montuosa, le cui impervie cime sono difficili da raggiungere con veicoli militari. Erdogan ha fatto sapere che gli attacchi si protrarranno finché i militanti del partito non decideranno di deporre le armi. Cinquanta postazioni dei ribelli sono state colpite, ma non sono noti dati sul numero delle vittime.

Sempre a Diyarbakir si sono tenuti il 17 gennaio i funerali delle tre attiviste del PKK uccise la scorsa settimana a Parigi. Decine di migliaia sono scesi in piazza per piangere la morte di Sakine Cansaz, 55enne fondatrice del PKK, di Fidan Dogan e di Leyla Soylemez, rispettivamente 30 e 24 anni. Se permane l’incertezza sui mandanti dell’omicidio – Erdogan ha parlato negli scorsi giorni di “faida interna al movimento”, mentre politici e attivisti curdi parlano di un’azione collegabile ai servizi segreti turchi – risultano chiari l’intento e l’effetto dell’azione: sabotare il dialogo e generare nuove violenze.

A partire dallo scorso dicembre, per ammissione dello stesso capo dei servizi segreti nazionali Hakan Fidan, è stato intrapreso un dialogo di pace con Abdullah Ocalan, capo spirituale del PKK. L’ex leader del partito è tenuto in isolamento nella prigione-isola di Imrali dal 1999. La richiesta di Erdogan è chiara e univoca: disarmo dei militanti del PKK. Le concessioni che Ankara sarebbe disposta a fare sono varie, dalla liberazione di alcuni prigionieri del PKK e di altri partiti indipendentisti curdi, fino all’eliminazione del divieto di insegnare la lingua curda in alcune scuole della Turchia. Secondo The Economist rimane però un’incognita: Ocalan è venerato dalla comunità curda, ma non è chiaro quanta influenza possa ancora vantare sui nuovi capi del partito dopo oltre dieci anni di isolamento.

All’interno del Kurdistan la situazione è complessa. La crescente cooperazione tra Ankara e Erbil vede una forte ipoteca turca sullo sfruttamento delle ingenti risorse petrolifere presenti nel Kurdistan iracheno. Il denaro che la Turchia sta investendo nel potenziamento delle infrastrutture della regione autonoma non prescinde però da maggiori garanzie sulla piena collaborazione del KRG nell’isolare i militanti del PKK. Un Kurdistan sempre più lontano da Baghdad dovrà impegnarsi a risolvere il conflitto che separa l’opinione pubblica interna alla regione.

Il crescente appoggio della Turchia al Kurdistan iracheno va contro la tradizionale intenzione di Ankara di mantenere unito l’Iraq: una sua frammentazione era sempre stata vista come causa d’indebolimento regionale, destinata ad eliminare un utile baluardo anti-iraniano. Gli atteggiamenti del primo ministro iracheno Al-Maliki e il suo avvicinamento a Teheran hanno però progressivamente turbato la Turchia che ha aumentato il suo appoggio alla regione semi-autonoma del Kurdistan, cercando di vincolare Barzani a un maggior impegno a richiamare i membri più ostili della comunità curda presenti in Turchia e a mettere ordine all’interno della propria regione.

Prosegue intanto il conflitto tra l’Iraq e la regione curda. La devoluzione del 17% del bilancio statale dell’Iraq nelle casse di Erbil non è stata sufficiente a trattenere il governo di Barzani dal cedere alle lusinghe dei grandi investitori internazionali, allettati dall’enorme disponibilità di risorse petrolifere ancora non sfruttate nell’area. La decisione del Kurdistan di non utilizzare più dallo scorso aprile l’oleodotto nazionale per le esportazioni di petrolio ha generato ulteriore acredine, risoltasi in un aumento delle tensioni lungo i confini con l’Iraq. Nell’area proseguono intanto le violenze: in quest’ultima settimana due attentati hanno insanguinato Tikrit e Tuz Khurmatu, uccidendo oltre 30 persone e ferendone più di 200.

Una grande quantità di elementi va quindi a dipingere un quadro fosco per il futuro della comunità curda. L’ambigua politica di Ankara che alterna aperture alla trattativa e pugno di ferro, l’opposizione dei nazionalisti turchi e delle frange più estreme e irredentiste del PKK la fanno da padroni in un conflitto che da decenni dissangua la Turchia. Le oltre 40mile vittime del conflitto tra Turchia e PKK dagli anni Ottanta ad oggi continuano a interporsi tra le due parti, rendendo difficile un effettivo progresso nei rapporti. Nena News

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