Bocca story: l'intervista al generale Dalla Chiesa

In ricordo del grande giornalista riproponiamo la storica intervista al generale dei carabinieri. L'ultima prima che Dalla Chiesa fosse ucciso dalla mafia.

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26 Dicembre 2011 - 14.42


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di Giorgio Bocca

La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti
ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre
venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica
notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la
Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del “wind surf” nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il “segno” che esso dà al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all’altro.

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Dalla Chiesa è nero: “Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero
certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello
Stato deve essere visibile, l’arroganza mafiosa deve cessare”.

Che arroganza generale?

“A un giornalista devo dirlo? uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li
mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del
pomeriggio in una strada centrale di Palermo”.

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Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la
sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati
da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po’ lasciata andare, un po’
leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che
arriva con le tazzine del caffè e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti
che dovevano sconfiggere la Mafia.

Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per
forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di
qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un
proconsole o un prefetto nei guai?

“Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha
detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di
prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi
possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”.

Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio
dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve “coordinare sia
sul piano nazionale che su quello locale” la lotta alla Mafia.

“Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati”.

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Vediamo un po’ generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il
potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la
stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il
sovrintendente, il coordinatore.

“Preferirei l’esplicito”.

Se non ottiene l’investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?

“Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per
discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più”.

No, parliamone, queste faccende all’italiana vanno chiarite. Lei cosa
chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto
Mori?

“Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori
comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e
di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse
di combattere la Mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non
farebbe che perdere tempo”.

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Lei cosa chiede? L’autonomia e l’ubiquità di cui ha potuto disporre
nella lotta al terrorismo?

“Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico
solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede
competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si
potranno attendere sviluppi positivi”.

Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in
tutte le città calde?

Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina
giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di
diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.

Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio,
lei è stato qui fra il ’66 e il ’73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale
nordista de “Il giorno della civetta”. Che cosa ha capito allora della
Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?

“Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l’istituto del soggiorno obbligatorio
era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle
informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i
Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di
Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me
denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto
e mi veniva risposto: ” Brave persone”. Non disturbano. Firmano regolarmente.
Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che
tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi”.

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E oggi?

“Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è
davvero una svolta storica. E’ finita la Mafia geograficamente definita della
Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene
alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro
maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che
potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”

Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso
nell’agguato sull’autostrada, si quando ammazzarono anche i
carabinieri di scorta, non era il cugino dell’assessore ai lavori pubblici
di Catania?

“Si “.

E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? E’
vero che sono sempre nel cassetto dell’assessore al territorio e
all’ambiente?

“Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l’abusivismo”.

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Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia
pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili,
altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella
venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo
mafioso. Cosa è successo, generale?

“E’ accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra
avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e
l’impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da
qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo
intento, ha trovato il piombo della Mafia.

Ho fatto ricerche su questo fatto
nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del “palazzo”.

Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando
avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può
uccidere perché è isolato”.

Mi spieghi meglio.

“Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva
intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità
dell’amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l’esempio più
chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme
del caso Coco”.

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Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità
elettive?

“Direi di si. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la
maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è
isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è
stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate
favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu
ammazzato”.

Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti
morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto
perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.

“Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di
mettere accanto alla “associazione a delinquere” la associazione mafiosa”.

Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione
mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?

“E’ materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo
che cosa è l’associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i
giudizi alle opinioni personali”.

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Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del “Giorno
della civetta”?

“Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti
misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma
io questo mondo lo conosco”.

Mi faccia un esempio.

“Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice,
come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il
nome è illustre. Se io non so che in quella casa l’eroina corre a fiumi ci vado e
servo da copertura. Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare
con la sola presenza quanto accade”.

Che mondo complicato. Forse era meglio l’antiterrorismo.

“In un certo senso sì, allora avevo dietro di me l’opinione pubblica, l’attenzione
dell’ Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti,
giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare
eccezioni la Mafia uccide i malavitosi, l’Italia per bene può disinteressarsene. E
sbaglia”.

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Perché sbaglia, generale?

“La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi
investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa
conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase
di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o
grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e
ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo,
che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a
mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le
vie di riciclaggio, controlla il potere”.

E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?

“Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e
ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella
è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta
alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo
globale”.

Generale Dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni?

Mi guarda incuriosito.

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Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l’hanno persa tutti, da
secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le
democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e
il bandito Giuliano, l’ala socialista dell’Evis indipendente e la sinistra
sindacale dei Rizzotto e dei Carnevale, la Commissione parlamentare di
inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il
doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.

“Ma si, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il
carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io,
badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia
professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si
può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma
forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi
certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti.
Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi
dipendenti i nostri alleati”.

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora Dalla Chiesa,
oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella.
Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che
non c’erano neppure negli anni dell’antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a
salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.

“Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons.
Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva
in tasca l’elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia
prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi
rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non
le ho prese neppure nei giorni in cui su “Rosso” appariva la mia faccia al centro
del bersaglio da tirassegno, con il punteggio dieci, il massimo. Se non è
istigazione ad uccidere questa?”

Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono?

Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un
inchino e mormora: “Eccellenza”.

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L’intervista è del 10 agosto 1982. Il generale Dalla Chiesa fu assassinato dalla mafia il 3 settembre successivo.
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