di Marcello Cecconi
Nell’anglosfera, l’endorsement è considerato il sale della democrazia, una sorta di “santificazione” laica con cui i grandi giornali dichiarano apertamente il loro sostegno politico. Dalle colonne dei quotidiani, la voce di un direttore o di un editore si leva, puntuale, per suggerire ai lettori chi, secondo loro, rappresenta la scelta più saggia per il Paese. È un rituale che parla di trasparenza e di coraggio, dove la stampa abbraccia con vigore il ruolo di quarto potere, schierandosi apertamente e senza timori.
L’Italia ha assistito a questa pratica con curiosità, seppure con molta cautela, osservando come nei grandi quotidiani americani la dichiarazione di supporto fosse una prova di integrità e apertura. Un tentativo di imitazione è arrivato in anni recenti da Paolo Mieli che sul Corriere della Sera ha provato ad abbracciare questa tradizione ma le critiche sono state immediate. Abituati a una stampa che preferisce giocare su ambiguità e mezzi toni, molti italiani non apprezzarono il tentativo “anglosassone” del Corriere.
L’endorsement in Italia non è mai decollato, forse per l’incomoda verità che ci racconta di una stampa troppo legata agli interessi politici ambigui per prendere posizione senza compromessi. Oggi, tuttavia, anche negli Stati Uniti sembra aprirsi una crepa in questa tradizione: il Washington Post di Jeff Bezos, il magnate di Amazon, una delle voci più autorevoli e influenti della stampa americana, ha deciso di non prendere posizione per le elezioni presidenziali del 2024, rinunciando al suo endorsement tra Donald Trump e Kamala Harris.
Il gesto di neutralità del Washington Post, che pure i presidenti li ha creati ma anche distrutti (come successe a Richard Nixon con lo scandalo Watergate), e che segue quello identico del Los Angeles Times, ha scosso i pilastri dell’editoria americana e porta alla mente una domanda scomoda: si tratta di una nuova era della democrazia, dove il giornalismo resta neutrale per favorire la libertà di pensiero dei lettori, o di una nuova forma di codardia?
«Nessun elettore indeciso della Pennsylvania — scrive Bezos a difesa della scelta del suo giornale — va a votare dicendo, “ci vado con l’endorsement del giornale X”», giustificando così la decisione improvvisa della neutralità. E non è stato certo il timore di perdere lettori visto che proprio per questa scelta molti lettori hanno già abbandonato; secondo il giornale online Semafor, circa 2mila persone hanno interrotto il proprio abbonamento.
In un’epoca in cui i media sono chiamati a informare, ma anche a prendere posizioni ferme in nome della democrazia, la scelta di restare in silenzio sembra più vicina a una sorta di paura mascherata da correttezza. Eppure i lettori avrebbero forse più che mai bisogno di un segnale di orientamento da parte della stampa in un’America in cui lo scontro politico è ai massimi livelli e dove il giornalismo d’inchiesta e di opinione ha sempre svolto un ruolo fondamentale.
Se la “neutralità apparente” sarà la nuova tendenza della stampa che si limiterebbe così a essere un riflesso delle paure editoriali si aprirebbe anche negli Usa la strada a una nuova forma di “editoriale accomodante” per un giornalismo che evita di scontentare, ma che perde la sua funzione storica di confronto e orientamento. Più che vedere la fine dell’endorsement come una vittoria del pluralismo democratico, come alcuni sostengono, si scorge un giornalismo più debole che si impone l’autocensura per evitare frizioni.
Alla fine, quello che era nato come un esercizio di trasparenza e onestà per il lettore, l’endorsement, sembra oggi destinato a svanire. Se il silenzio del Washington Post sarà il nuovo modello, la libertà d’opinione si appresta a entrare in una nuova era. Ma più che una vittoria, rischia di essere una resa.