Finalmente. Dopo attese e incertezze sembra che il tema cruciale della libertà di informazione sia entrato nell’agenda setting, per dirla con il linguaggio dei mediologi.
Il prossimo 7 febbraio si terrà un sit in davanti alla direzione generale della Rai promosso dal partito democratico, con l’adesione di diverse associazioni e svariate testimonianze della e sulla vita in diretta nel servizio pubblico occupato dalla destra. Così, la conferenza stampa alla Camera dei deputati promossa da Alleanza Versi-Sinistra italiana in cui si illustra una mozione presentata dalla parlamentare Elisabetta Piccolotti, la vera sorpresa positiva– tra l’altro- dei (spesso noiosissimi) talk televisivi.
La Rete NoBavaglio e l’associazione Articolo21 hanno promosso un appello al parlamento e al Presidente della Repubblica contro i tentativi di minare il diritto di cronaca, da ultimo con il testo emendativo alla legge di delegazione europea in discussione ora al Senato, dopo l’approvazione dell’assemblea di Montecitorio, con cui si fa divieto di rendere noto il testo integrale delle ordinanze di custodia cautelare. Non è un aspetto marginale nel contesto autoritario che si va delineando.
La strategia del segreto è una componente essenziale per il controllo coercitivo della comunicazione e di pari passo va la tendenza a ridurre la possibilità di conoscere i contenuti delle intercettazioni, adducendo la scusa della tutela di chi è estraneo agli eventuali capi di imputazione: come se il capitalismo della sorveglianza non si sia appropriato da tempo dei meandri più riposti della nostra vita.
La cura del segreto si congiunge all’insidia delle querele temerarie, mezzo meschino e odioso per condizionare l’agibilità di chi si occupa di faccende delicate spesso senza tutele legali, prevalendo ormai il lavoro precario.
Per non dire della mancanza di normative minimamente adeguate su stampa ed editoria in corso di drammatica crisi, sulla Rai sempre più soggiogata al governo fino al grottesco simil Minculpop, sull’emittenza radiotelevisiva locale spenta via via dalla bulimia della telefonia mobile a caccia di frequenze. Inoltre, appare persino allarmante il problema, clamorosamente esploso, della debolezza della regolazione in vigore (con la legge dell’ex ministro Frattini, n.215 del 2004) in merito ai conflitti di interessi. Un tempo si pensava che l’argomento riguardasse in particolare Silvio Berlusconi, mentre si sta assistendo ad una vera e propria diffusione pandemica di tale patologia. Un sistema democratico ha bisogno di vedere distinti i ruoli tra chi è parte della sfera pubblica e quanti hanno un peso in società o soggetti operanti sul mercato. L’ibridazione delle differenti funzioni è un macigno contro la trasparenza e la stessa legittimità di decisioni assunte per favorire questo o quello. Lobby e cattivi influencer chiudono il cerchio.
Riassumiamo, dunque, il quadro fosco che ci sovrasta: Il sovranismo imperante ha tratti di democratura e ha bisogno di limitare fortemente i contropoteri, dall’informazione alla magistratura; le prossime scadenze -dal premierato all’autonomia differenziata- evocano una totale subalternità dei media; l’innovazione tecnologica va contemplata come un fenomeno (con rispetto parlando) da baraccone, senza interferenze sociali e negoziati.
Non va dimenticato, poi, il panorama internazionale che ci sovrasta: una guerra mondiale a pezzi -come denuncia inascoltato Papa Francesco- scarsamente raccontata da corrispondenti guardati a vista e spesso feriti se non uccisi. Non si contano le vittime a Gaza e il 2023 sarà ricordato come l’anno con il maggior numero di morti anche nell’attività giornalistica.
Sono utili, quindi, sit in, appelli e mozioni. Tuttavia, servono progetti che diano il senso di una possibile alternativa: una riforma complessiva, che accetti la sfida dell’intelligenza artificiale e del post-umano.
L’informazione è, a suo modo, una forma di lotta di classe nell’immaginario, un braccio di ferro per l’egemonia. Qualche intervista o le reiterate comparsate televisive non fanno primavera.