"Che ci faccio qui": Domenico Iannacone ci regala la grande tradizione del racconto tv
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"Che ci faccio qui": Domenico Iannacone ci regala la grande tradizione del racconto tv

Iannacone ha fatto quello che troppo spesso la tv non sa fare: tornare, riprendere il racconto iniziato, riprendere a sfogliare la vita di chi si è incrociato

"Che ci faccio qui": Domenico Iannacone ci regala la grande tradizione del racconto tv
Domenico Iannacone
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

10 Aprile 2022 - 18.44


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“Che ci faccio qui” è una boccata d’aria, racconta la vita, le resistenze di chi dal disegno distorto e ingiusto del mondo ha avuto in regalo una difficile vita. Domenico Iannacone ci racconta questa vita. Racconti di privazioni, vite che comunque continuano e nei figli riversano la speranza di quanto per padri e madri, per i nonni, è stato irraggiungibile.   

  Domenico ha ripreso il suo viaggio nella tradizione del racconto, che è una grande tradizione italiana, letteraria e popolare. Tradizione che fu della televisione, poi smarrita da una tv impantanata negli studi limacciosi. Questa Tv è l’esatto contrario di quelli che il mio amico Franco chiama “talk sciò”.   

“Che ci faccio qui” ha ripreso il viaggio da Palermo, da un quadrilatero che sta tra il mare del porto e il boulevard delle grandi firme, Iannacone ha fatto quello che troppo spesso la tv non sa fare: tornare, riprendere il racconto iniziato, riprendere a sfogliare la vita di chi si è incrociato. Perché il racconto delle vite, soprattutto di quelle fragili e che resistono, non può risolversi in un frettoloso post it. Immagini, parole, pause sono le chiavi per aprire le scatole di cartone che sono le case di chi Iannacone aveva lasciato bambino e che ora, spinto dalla necessità di “abbracciarsi” per resistere, si è fatto uomo, donna, padre e madre. Tutti senza mai essere stati compiutamente piccoli, mai pienamente figli.


Il Borgo Vecchio di Palermo per me è un  luogo del cuore. La prima puntata di “Che ci faccio qui” – scorro i commenti sui social – ha emozionato, commosso. Io due volte emozionato, due volte commosso. Ho avuto casa poco più in là del Borgo Vecchio. E più in là significa un altro mondo, perchè il Borgo Vecchio è un mondo che sopravvive e dove si sopravvive. Mentre per me, per tanti, era il mercato della domenica mattina, tutto  aperto sempre, anche la notte dell’ultimo dell’anno. Qui si canta, si lavora e si prega, come dice l’uomo che di ragazzo ha conservato la chioma. da cantante “bitter”, come dice la sua compagna di vita, mezzo secolo assieme.A Borgo Vecchio l’occhio di Domenico torna cinque anni dopo. Prima di muoversi tra le stradine di questo suk di umanità, Iannacone il Borgo lo guarda dall’alto. Mi appare come una citazione, e qui ha un senso: il cielo sopra Borgo Vecchio. Poi l’angelo vien giù, con accanto chi, anche cinque anni fa, gli aveva fatto da guida tra i ragazzi del campetto, Cristian “Picciotto” Paterniti, rapper e operatore sociale. 

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Il campetto oggi non fa giocare, l’erba sintetica in gran parte è divelta, più che uno spazio per giocare sembra una gabbia, del resto non è più tempo di giocare per tanti. I piccoli di adesso non hanno neanche quello. Qui a Borgo Vecchio, tutto va maledettamente indietro, come se si dovesse chiarire che la speranza era un lusso.     

“Picciotto” ricorda che qui si era tentato di costruire qualcosa, oggi si scopre che l’asilo dal quale si voleva e poteva cominciare ha porte e finestre murate, che i murales sono sbiaditi, come se si fossero arresi. Anche la famosa “Bocca della verità” del Borgo – una bellissima pittura sullo spigolo di una casa diroccata –  ha i suoi cento colori mortificati dal tempo e da chi qui non si è mai visto. Del resto, non serve, la verità si sa.Al Borgo Vecchio il livello di abbandono scolastico è altissimo, dei bambini di cinque anni addietro, solo uno ha continuato a studiare. Il copione vuole che a proseguire negli studi – dopo aver lasciato queste stradine dove la notte ci sono i “toponi” – sia un ragazzone alto e timido, Marc, con mamma della Costa d’Avorio e un dolcissimo secondo papà palermitano che avevamo conosciuto cinque anni fa.                                                     

  Marc fa il Liceo Linguistico, da “Picciotto” ha avuto in regalo la passione per il rap. Oggi i due si incontrano dopo tanto tempo e cantano. Nel loro rap incrociato c’è questa Palermo, così distante dalla Palermo felicissima che è più in là.I ragazzini di Domenico raccontano e si raccontano.  Alle spalle hanno case pieni di letti, figli tanti, uno il padre l’ha perso a 4 anni, il padre ne aveva 25. “Un desiderio?”, chiede Domenico. “Poter riavere mia nonna..”, gli risponde il ragazzino che è quasi padre. “Sono fuggito…”, lo dicono in tanti. Dove fuga sta per “fuitina”, l’antica forma di matrimonio povero, dove non c’è da costruire prima, non c’è da festeggiare dopo. Lui e lei, poco più che bambini, si conoscono, si amano, poi per una notte trovano rifugio dai nonni o a casa di un amico, quindi di nuovo a casa di uno dei genitori, quello che ha più possibilità, quello che nella povertà può”calarti” nello stato di famiglia, farsi carico di un’altra bocca. Qui “fuggono” tutti, e quella fuga d’amore appare davvero una fuga che va oltre l’amore. E’la fuga di chi sa che da qui non può fuggire. “Qui non crescono piante e fiori”, dice uno di loro.                                                                                                                                                                         

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Martino canta, ha sempre cantato. Per piacere, per piacere alle ragazze, per vivere. Il papà era carrettiere, gli è rimasta la passione per il cavallo, il suo cavallo. Lo ha chiamato Mosè. Ed è Isacco, un ragazzone amico di poche parole che gli prepara il calessino. E Martino se ne va in giro per Palermo, cantando.

 Quando Iannacone inizia i suoi incontri, al Borgo piove a dirotto, poi, come se seguisse il nostro desiderio, il cielo sopra questa umanità fragile si apre, i raggi non hanno difficoltà a farsi spazio nelle casupole basse coi tetti di amianto.

  “Se ti fermi muori”. Si, nelle periferie se ci si ferma non si riesce più a vivere. E il Borgo Vecchio di Palermo è due volte periferia, perché è la crosta di una ferita che non guarisce, in un corpo bellissimo.Qui finire dentro è facile. Lo sa Tonino: “Mi sono mangiato la vita..”. Furtarelli, furti, rapine. Ora è in affido, durante il giorno dentro, al “Malaspina” lavora, fa biscotti. La pasticceria del carcere Malaspina ha un bel nome “Cotti in Fraganza”. Tonino col lavoro in istituto guadagna 500 euro al mese. Soldi puliti e questo li moltiplica, come fossero i pani e i pesci del miracolo. Al Malaspina ha studiato, la terza media non è poco per chi – pagato il conto con una società certo non generosa – deve ricominciare e alle spalle ha meno del nulla.”Ho un figlio laureato in ingegneria gestionale e una figlia che frequenta Farmacia”. Emozione e orgoglio di chi qui c’è da tutta la vita, dividendosi tra lavoro e preghiera. 

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Non mi lamento”, dice l’uomo che nel suo magazzino senza luce aggiusta biciclette. Il suo miracolo è la nipotina, e quando lo dice ha un nodo alla gola. Chiede a Domenico di lasciarlo lavorare, tra poco farà buio, non ha la corrente.”Guardo mia figlia e mi passa tutto”, dice lei, ora madre, ma col viso della ragazzina “fuggita” per amore con lui che sapeva dare calci al pallone. “Non si può andare avanti col reddito di cittadinanza, ci vuole un lavoro vero…”. Qui se il lavoro arriva è il più precario, garzone di macelleria,”domicilio” di polli arrosto. Ora il Borgo è alle spalle,”Picciotto” ci porta più in là, scavalca i quartieri bene alla destra e alla sinistra del Viale della Libertà e raggiunge altre zone popolari. Questo quartiere è cresciuto all’ombra del Castello della Zisa, Al-Aziza, la splendida. Nell’arco d’ingresso una pittura raffigura dei diavoli. La leggenda vuole che se si fissano si vedranno i diavoli muovere la coda e storcere la bocca. La leggenda vuole anche che quando sulla città soffia un forte vento, vuol dire che “sono usciti i diavoli della Zisa”. 

Vento fresco, come quello che soffia sul lavoro dei ragazzi con i quali si chiude il viaggio di Iannacone. Hanno preso in gestione una palazzina confiscata alla mafia, stanno rifacendo l’intonaco, ne faranno un luogo di incontro, dove ricominciare, dove incontrarsi, cantare e costruire un futuro diverso per la città. Fermarsi è morire.

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