Giornalisti che raccontano la guerra e (a volte) muoiono: con loro la professione ritrova la sua nobiltà
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Giornalisti che raccontano la guerra e (a volte) muoiono: con loro la professione ritrova la sua nobiltà

Grazie a loro il giornalismo ritrova la nobiltà etica e deontologica d'una professione che è stata troppo spesso messa alla berlina, anche grazie a una capacità autolesionista della categoria

Giornalisti che raccontano la guerra e (a volte) muoiono: con loro la professione ritrova la sua nobiltà
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Maurizio Boldrini Modifica articolo

4 Aprile 2022 - 19.49


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Purtroppo l’elenco si allunga e diventa sconsolante se si sommano le vittime civili torturate e massacrate, le anime gettate nelle fosse comuni e i giovani militari. Cresce anche l’elenco dei giornalisti e dei reporter che operavano in quella martoriata terra per raccontarci ciò che accade. Sono sei le vittime di questo modo di concepire un mestiere che è nobile, quando si pratica davvero. Lavorano, quei reporter, in modi diversi e con diversi mezzi per mostrarci ciò che stanno vedendo: chi lo fa con l’I-Phone; chi con rapidi messaggi sui social; chi con improvvisati collegamenti neo-televisivi; chi scrivendo giorno dopo giorno sui giornali; chi scattando foto e chi rischiando con riprese ardimentose, la propria incolumità. Ci fanno vedere e sentire la guerra.

E’ uno dei pochi modi che i cittadini hanno per tentar di sapere ciò che lì realmente accade, per tentare di uscire dalle bolle delle fake o dalle inevitabili manipolazioni della propaganda. Grazie a loro il giornalismo ritrova la nobiltà etica e deontologica d’una professione che è stata troppo spesso messa alla berlina, anche grazie a una capacità autolesionista della categoria, partecipando senza batter ciglio che ad alcune forme di degrado che attanagliano il variegato mondo dell’informazione. Pensiamo all’irrisolta questione della proprietà dei media; al fenomeno dei giornali che si alimentano di finanziamenti oscuri, al gran mercato editoriale del “compro e vendo questa o quella” testata, modificando lo stesso Dng delle origini e prescindendo dai meriti di chi vi lavora. E, in alcuni casi, della stessa storia: dice nulla la vicenda de l’Espresso? Sotto scacco è anche il giornalismo cosiddetto ” partecipativo” che è diventato il regno delle bufale e il campo dei miracoli delle contrapposizioni propagandistiche e delle teorie complottiste. Infine di un neocapitalismo delle piattaforme digitali che, escluso qualche coraggioso tentativo, trovano sempre meno ostacoli sull’autostrade dell’arricchimento, magari facendo credere che ormai il giornalismo, quello “a la page”, possa fare a meno di ogni forma di intermediazione tra la fonte e il pubblico.

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Poi, però, ci sono i giornalisti. Quelli veri, che assistendo ai fatti e li trasformano in notizie. Sono già dodici i giornalisti uccisi in quest’anno. Lo dice il sito sempre aggiornato di “Reportes sans frontières”e la banca dati del Committée to Protect Journalists precisa che, nel primo quarto del 2022, come e dove abbiano perso la vita i dodici giornalisti: due in Messico, due ad Haiti, e uno in Myanmar; altri due in Chad e Haiti e i restanti in Ucraina.


Dunque sono sei i reporter deceduti nella guerra d’Ucraina. Anna Di Lellio, racconta su “FoglieViaggi”, alcune di queste storie che sono poi quattro modi vivere il mestiere. L’ultimo, il fotogiornalista ucraino, Maks Levin, è stato ritrovato, il 1 aprile, con due proiettili nel corpo, non lontano da Kiev. Dal 13 marzo non si avevano più sue notizie precise, cioè da quando era partito in macchina con Oleksiy Chernyshov, un soldato ex-fotografo, per un villaggio a nord di Kiev per seguire gli scontri tra Russi e Ucraini. Da più di dieci anni lavorava per il sito giornalistico LB.ua e aveva collaborato con la Reuters, la BBC, TRT World, e l’ Associated Press. Le cronache di questo primo lungo mese di guerra ci riportano alla memoria gli altri giornalisti e fotoreporter che sono rimasti sul campo. Il primo è stato il cameraman ucraino Yevhenii Sakun, morto sotto la torre televisiva bombardata a Kyiv dove lavorava per la stazione televisiva “Live”. Poi è stato il turno del primo giornalista non ucraino, lo statunitense Brent Renaud, a Irpin, mentre stava lavorando a un documentario sui profughi per Time Studios. Aveva raccontato più d’una guerra per tanti giornali e televisioni, aveva ricevuto Premi giornalistici e riconoscimenti pubblici, si era ben preparato aggiornare per questa nuova impresa. Ma la sorte, in guerra, non guarda in faccia nessuno. Non seleziona. Uccide. L’elenco si allunga con il passare dei giorni:  Pierre Zakrzewski di Fox News e la sua produttrice ucraina Oleksandra Kuvshynova, sono uccisi dal fuoco di artiglieria che si sospetta sia venuto da parte russa. Benjamin Hall, il corrispondente che era con loro, ferito. racconterà poi l’accaduto. Anche una giornlista russa. Oksana Baulina, è rimasta uccisa, nei pressi di Kiev, mentre seguiva per “The Insider” l’evoluzione degli scontri e il rapporto tra l’esercito di Mosca e la corruzione di quel paese. Aveva, prima di arrivare in Uncraina, collaborato con la Fondazione Anti-Corruzione di Alexei Navalny.
L’elenco è lungo, specie se si aggiungono i feriti, sia gravi, sia meno gravi. Ne cito solo alcuni: Andriy Tsaplienko, giornalista per la TV 1+1, Oleksandr Navrotskyi, fotografo per Channel 24. Tra i feriti anche un giornalista russo, Rodion Severyanov, corrispondente per la Izvestiya TV che è stato ferito alla gamba nella città di Mariupol.

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