I velinari a tutto servizio e chi rischia la vita: le due facce del giornalismo
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I velinari a tutto servizio e chi rischia la vita: le due facce del giornalismo

Sono 488 gli operatori dell'informazione reclusi nelle carceri del mondo. Un numero superiore ad ogni stima mai registrata da quanto, cinque anni fa, Reporter senza Frontiere iniziò a raccogliere dati sulle persecuzioni contro la stampa

I velinari a tutto servizio e chi rischia la vita: le due facce del giornalismo
Censura verso i giornalisti
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Dicembre 2021 - 17.13


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Rappresentano l’altra faccia del giornalismo velinaro e mainstream. La faccia nobile di una professione che scava in profondità, che non si piega a comode “verità”. Per tante e tanti reporter la libertà d’informazione non è materia di convegni e salotti mediatici ma una pratica quotidiana, rischiosa, perché non si piega ai potenti di turno. E’ il giornalismo d’inchiesta, il giornalismo degli inviati di guerra, il giornalismo che lotta contro le mafie di tutto il mondo, il giornalismo che non fa sconti a nessuno. 

Carceri piene

Sono 488 gli operatori dell’informazione che risultano attualmente reclusi nelle carceri del mondo a causa del loro lavoro. Un numero superiore ad ogni stima mai registrata da quanto, cinque anni fa, Reporter senza Frontiere iniziò a raccogliere dati sulle persecuzioni contro i giornalisti. ​”Questo aumento significativo del numero delle detenzioni arbitrarie è provocato in particolare da 3 Paesi i cui governi sono indifferenti al desiderio di democrazia dei loro cittadini”, prosegue il rapporto. In Myanmar, dove lo scorso febbraio i militari hanno ripreso il potere con un colpo di Stato, attualmente vi sono 53 giornalisti in prigione, mentre lo scorso anno erano solo 2. La Cina è il paese che detiene nelle proprie carceri il maggior numero di reporter, 127, e a riguardo il dito viene puntato soprattutto sulla crisi in corso a Hong Kong con il relativo giro di vote sulla stampa. Seguono Myanmar (53), Vietnam (43), Bielorussia (32) e Arabia Saudita (31).  Di segno opposto invece i numeri sulle uccisioni: 46, il più basso nello stesso lasso di tempo. La cosa, spiega un dossier di Reporter senza Frontiere pubblicato a Parigi, è dovuta principalmente alla relativa stabilizzazione del Medio Oriente negli ultimi mesi. Il numero delle reclusioni, viceversa, è cresciuto in un anno del 20 percento a causa delle tensioni in Myanmar, Hong Kong e Bielorussia. Spicca inoltre il fatto che mai così tante donne sono risultate imprigionate, 60. Messico e Afghanistan restano i due paesi più pericolosi per i giornalisti quest’anno, con rispettivamente 7 e 6 morti, seguiti da Yemen e India al terzo posto, con 4 giornalisti uccisi ciascuno.    I dati, che sono aggiornati allo scorso primo dicembre, registrano un aumento del 20% degli arresti di giornalisti rispetto allo scorso anno, si legge ancora nel rapporto annuale dell’organizzazione non governativa.

Il j’accuse di Amnesty International

Cina, Russia, Messico, Niger, Egitto, Venezuela, Turchia, Filippine, Kuwait, Oman, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, India, Azerbaigian, Kazakistan, Serbia, Bangladesh, Cambogia, Uganda, Ruanda, Somalia, Tunisia, Palestina, Kenya, Zimbabwe, Uzbekistan, Algeria, Ungheria, Sri Lanka, Thailandia, Tanzania, Bosnia ed Erzegovina, Bahrein, Myanmar, Angola, Zambia, Iran, Madagascar…

Questo è l’elenco – certamente non esaustivo – degli Stati nei quali, secondo il Rapporto 2020-2021 di Amnesty International, lo scorso anno è stata violata la libertà di stampa.

In alcuni di questi Stati, il giornalismo indipendente e d’inchiesta ha continuato a essere bersaglio di governi repressivi, gruppi armati di opposizione e imprese criminali. Il Messico si è confermato il più pericoloso al mondo, almeno tra gli stati nei quali non è in corso un conflitto armato.

Ma la novità è che, persino durante la pandemia, la libertà di stampa è stata considerata un fastidioso problema. Nei momenti di picco della diffusione del virus, è sembrato proprio che il vero nemico non fosse il Covid-19.

I giornalisti che denunciavano la reale dimensione del contagio, il numero effettivo dei ricoveri e dei decessi o l’inadeguata – e, se non peggio, discriminatoria – risposta dei governi sono stati licenziati, minacciati, arrestati o processati, spesso grazie ad apposite leggi sulle “fake news”.

Annus  horribilis

Il 2021 è stato l’anno nero del giornalismo, con il numero dei reporter incarcerati in tutto il mondo che ha raggiunto il suo record. Lo rivela un rapporto del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), secondo cui quello in corso è stato il peggiore anno di sempre per la libertà d’espressione. Il numero di giornalisti dietro le sbarre ha raggiunto un nuovo record: 293 al 1 dicembre, 13 in più rispetto all’anno precedente. Oltre a questi, altri 24 sono stati uccisi per quello su cui stavano lavorando mentre altri 18 sono morti in circostanze talmente torbide che non è possibile determinare se le morti fossero effettivamente legate alla professione giornalistica, ma le possibilità sono davvero alte. La triste classifica ha un vincitore evidente: la Cina, dove si trovano attualmente detenuti 50 giornalisti. Al secondo posto si posiziona il Myanmar (26), seguito da Egitto (25), Vietnam (23) e Bielorussia (19). È il sesto anno di fila che il numero di giornalisti in prigione nel mondo supera quota 250. Secondo Arlene Getz, direttrice editoriale di Cpj che ha curato il report, questo trend (così come il nuovo record negativo) segnala una crescente intolleranza verso la cronaca indipendente. Questo è vero, prosegue lo studio, soprattutto con riferimento agli “autocrati spavaldi” che violano le libertà personali così come il diritto internazionale pur di rimanere al potere.

C’è stato comunque qualche relativo miglioramento: ad esempio, la Turchia, che un tempo era il Paese peggiore al mondo in termini di incarcerazioni di giornalisti, ora si è piazzato al sesto posto (con 18 giornalisti dietro le sbarre), poiché nell’ultimo anno ne ha liberati 20. Stesso dicasi per l’Arabia Saudita, che scende all’ottava posizione: i giornalisti incarcerati sono ancora 14, ma almeno ne sono già stati liberati 10. Ma oltre alle scarcerazioni, bisogna considerare la salute della stampa libera in questi Paesi: il rapporto nota che, nel primo caso, dopo il fallito colpo militare del 2016 c’è stata una stretta sull’informazione indipendente; mentre in Arabia Saudita l’omicidio di Jamal Khashoggi nel 2018 ha verosimilmente fatto da deterrente per molti.

Come se non bastasse, le nuove tecnologie di sorveglianza sul web permettono ai leader autoritari di soffocare la stampa indipendente senza dover necessariamente ricorrere all’incarcerazione. In Cina, l’imprigionamento dei giornalisti non è nulla di nuovo. Nuova è, piuttosto, l’inclusione dei giornalisti detenuti ad Hong Kong in seguito all’adozione, l’anno scorso, della cosiddetta Legge per la sicurezza nazionale. Ma il Partito comunista cinese ha addirittura preso di mira almeno 11 persone che, pure non svolgendo la professione giornalistica, avrebbero dei legami con i media, per quanto tenui.

La situazione in Myanmar è precipitata poi da quando, lo scorso febbraio, i militari hanno preso il potere tramite un colpo di Stato che ha scioccato il mondo. Il numero di 26 giornalisti dietro le sbarre è infatti tanto più incredibile se si considera che, lo scorso dicembre, di giornalisti incarcerati non ce n’era nessuno.

Quanto all’Egitto, viene riportato tra gli altri il caso di Abou Zeid, vincitore del premio internazionale del Cpj per la libertà di stampa, costretto a passare ogni notte in custodia della polizia per cinque anni a partire dal marzo 2019.

Infine, il caso della Bielorussia è esemplificato dal dirottamento di un volo commerciale da parte del governo di Minsk per prendere e incarcerare il giornalista Raman Pratasevich. Il Paese ha visto un aumento di quasi il doppio dei giornalisti in prigione rispetto all’anno scorso, quando anziché 19 erano 10. Dopo che il report di Cpj è stato pubblicato, le autorità bielorusse hanno arrestato un altro giornalista, Siarhei Satsuk, con accuse di concussione. Se venisse incarcerato, potrebbe dover passare 10 anni in prigione.

Oltre ai giornalisti incarcerati, il rapporto cita anche altre statistiche. Sono state confermate le uccisioni di 19 giornalisti come ritorsione contro il loro lavoro nel 2021, 3 in meno che nel 2020. Altri 3 sono rimasti uccisi in zone di conflitto, mentre altri 2 hanno perso la vita durante delle proteste o scontri di piazza. I Paesi dove muoiono più giornalisti sono India e Messico: 4 nel primo e 3 nel secondo, ma in quest’ultimo ci sono altri 6 casi sospetti che ancora non sono stati chiariti.

Niente da festeggiare

Il 10 dicembreGiornata internazionale dei diritti umanisembra essere una giornata nella quale c’è poco da festeggiare. Lo dimostra la scandalosa decisione dell’Alta corte del Regno Unito che ha accolto la richiesta di estradizione inoltrata dagli Stati Uniti per Julian Assange.

Un colpo alla libertà di informazione, alla denuncia delle violazioni dei diritti umani, ha dichiarato in quell’occasione all’Adnkronos Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.“Il caso giudiziario di Assange è esemplificativo delle persecuzioni che subiscono nel mondo difensori dei diritti umani, giornalisti, ricercatori, blogger, attivisti”.

Viviamo in un mondo dove i diritti delle donne sono sotto attacco, così come i diritti delle persone migranti e richiedenti asilo. Un mondo dove l’odio prende forma attraverso narrazioni false e pericolose che sostengono che i diritti umani siano solo di poche persone.

“Oggi più che mai occorre che ciascuno faccia la sua parte: la società civile nel mobilitare, l’informazione nel dare eco a queste mobilitazioni dal basso e le Istituzioni nel porre i diritti in cima all’agenda delle relazioni bilaterali e internazionali. Ogni volta che i diritti sono sacrificati a interessi economici, alla vendita di armi, a strategie geopolitiche è una sconfitta per l’umanità”, ha concluso Noury.

C’è chi la sua parte l’ha fatta. Anche a costo del carcere. E della vita stessa. Ricordarne il sacrificio è un dovere. Come battersi perché i giornalisti indipendenti tornino in libertà. Tutti. 

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