Il potere della scrittura come forma di terapia per dare significato e interpretare la malattia
Top

Il potere della scrittura come forma di terapia per dare significato e interpretare la malattia

Ne hanno parlato Mario Rotta e Paola Masuzzo con Ivo Quaranta alla biblioteca del CNR di Bologna nell’ambito degli incontri SlowScience.

Il potere della scrittura come forma di terapia per dare significato e interpretare la malattia
L'evento
Preroll

redazione Modifica articolo

30 Gennaio 2025 - 17.01 Culture


ATF

di Luisa Marini

Può la scrittura diventare terapia efficace per i pazienti per affrontare alcune malattie degenerative come il Parkinson? Da parte della medicina il paziente può essere considerato non solo come affetto da una malattia da curare, ma anche come persona che vive un’esperienza diversa del mondo? Questi e altri gli interrogativi sui quali hanno riflettuto Mario Rotta e Paola Masuzzo a partire dalle loro esperienze di malattia e scrittura, in dialogo con Ivo Quaranta, antropologo del Dipartimento Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna.

Mario Rotta è consulente strategico di ambienti di apprendimento online, docente e autore di libri, tra i quali “Il compatibile”, in cui affronta la malattia di Parkinson con una scrittura ironica e diretta, suggerendo anche soluzioni pratiche al design degli oggetti; Paola Masuzzo, ricercatrice indipendente e data scientist, ha creato il blog “Fate e monelle” per condividere il suo percorso con il tumore mammario.

Ivo Quaranta ha introdotto l’incontro delineandone lo scenario: siamo abituati a pensare la malattia nei suoi termini medico-sanitari come alterazione che richiede un intervento anatomo-fisiologico, ma esistono dei “coni d’ombra”: il più evidente è dimenticare che la malattia è un’esperienza per chi la vive e per chi è accanto al malato. Cosa c’è in ballo in questa esperienza? La crisi del corpo, che è il terreno esistenziale della nostra vita. La malattia distrugge il corpo che abitiamo, non riusciamo più a fare cose che prima non erano oggetto di riflessione, il mondo non è più naturale e vissuto in maniera preriflessiva: vanno rinegoziati con esso nuovi significati per scendere a patti con la realtà. Esiste un imperativo proattivo a creare un nuovo significato, mezzi utili per fare questo possono essere la scrittura e l’arte, per tornare ad abitare il mondo in modo inedito. Quindi, Mario, perché “Il compatibile”?”

“Perché – risponde Mario Rotta – dal momento che scopri la tua malattia, ti accorgi che non fai più quello che vuoi tu, ma quello che vuole il tuo corpo. Nel mio referto lessi: “i risultati delle analisi sono compatibili con la malattia di Parkinson”. Che significava che ero compatibile? Con che cosa? Sono passati 12 anni dalla scoperta del morbo (termine con cui a volte viene definito, che rimanda all’appestato), ma solo dopo molto tempo ho iniziato a parlarne. L’idea del vecchietto tremolante associata al Parkinson dà fastidio, la società in cui viviamo è portata a mettere in un angolo le persone che non sono allineate a concetti di efficienza e produttività. Una cosa era certa: non volevo essere compatito. Il bisogno di raccontare mi ha portato a riappropriarmi della mia identità, perché a forza di negare il problema non riuscivo più a gestirlo. Questo è il problema principale: la volontà di negare la malattia. Così facendo, non se ne prende coscienza e si accelera l’aggressività verso il problema. Parlarne ironicamente, invece, serve a recuperare anche una dimensione di padronanza del corpo. Io ho riscoperto la possibilità di ragionare su cosa possa aiutare le persone con difficoltà simili alle mie”.

Continua Rotta: “Prendere coscienza dell’interazione con la realtà porta all’autoconsapevolezza come forma di superamento dei limiti che la malattia ti impone. Questo costituisce una macro-terapia olistica che tiene conto di fattori importanti grazie ai quali si prova un miglioramento. Mi sono reso conto che gli oggetti di uso comune, con qualche piccolo accorgimento, possono diventare compatibili con le difficoltà imposte dalla malattia. Ho immaginato allora un Manifesto per coloro che, come me, vivono determinati problemi quotidiani per capire come possano essere affrontati, e ho iniziato una ricerca sulle interfacce creando delle liste di problemi e possibili soluzioni”.

Paola Masuzzo ha usato un mezzo diverso, il blog, che va oltre la vicenda personale, uno spazio di produzione di significato per dare un senso alla sua malattia, il carcinoma mammario: “Dovevo trovare un modo di raccontarmi, e la scrittura per me è stata salvifica perché ha trasformato il mio problema in un’istanza collettiva. Lo stato di malattia in generale, prima o poi, ci riguarda tutti; non necessariamente è sempre una cosa brutta, ma di certo costituisce un’esperienza sentimentale di smarrimento molto simile a diverse vicende umane di cambiamento e perdita. Io ho sperimentato due tipi di spinte: una prima verso l’esterno, alla ricerca di reti di comprensione e quindi di aiuto, che mi ha portata a scrivere una newsletter che potesse aiutare i suoi lettori a vivere meglio la propria malattia. Secondariamente, un’altra verso l’interno, per cui la narrazione è stata come una lente d’ingrandimento su alcune mie zone d’ombra, un esercizio di identità in cui ho messo a fuoco parti di me inespresse. Al momento il mio tumore non è totalmente in remissione, e devo continuamente ridefinire me stessa, ma la scrittura autobiografica è diventata un atto di speranza verso la guarigione, e mi ha salvata”.

Ivo Quaranta ha poi focalizzato gli interventi sul concetto di salute e sul tema dell’efficacia terapeutica. L’OMS definisce la salute come “completo benessere bio-psico-sociale”, che evidentemente è un ideale per guidare le politiche dei vari Paesi. Tuttavia, andrebbe  promossa la salute in presenza della malattia, non in sua totale assenza. Paola Masuzzo su questo tema ha affermato: “Mi rendo sempre più conto che non mi basta la mancata evidenza della malattia nel mio corpo, mi interessa un altro tipo di guarigione, che poco ha a che vedere con terapie e ospedali intesi come spazi di cura. Dove la ricerco? Nello stato di benessere psicologico”. Masuzzo ha segnalato inoltre che ancora troppo pochi sono i servizi di sostegno rivolti non solo ai malati, ma anche a tutti quelli che vivono con un familiare malato. Servono dunque spazi di cura alternativi volti a guarire dall’esperienza della malattia ricorrendo, ad esempio, anche a terapie di gruppo che sanino oltre al corpo lo spirito.  

Sono dunque stati lanciati molti spunti. Il primo è che è difficile vivere un mondo che rimuove la malattia, fatto che prima o poi ci riguarda tutti. Rotta lo evidenzia quando sottolinea il suo sovvertimento della realtà: non siamo individui avulsi dal mondo, ma esso è disegnato sulla media delle persone, e mina il diritto a esserci diversamente. Altro punto è che si tende a concentrarsi sugli aspetti terapeutici e basta, ma ce ne sono tanti altri da tenere presenti, e si crea di fatto una sorta di “ghetto” immaginario di quelli fuori dallo standard della cosiddetta “salute”. Poi, la ricerca non si concentra troppo sulle malattie gravi perché cosa conviene alle case farmaceutiche? I piccoli fastidi (il mal di testa, ad esempio) che creano fatturato.

Spiega Rotta: “Si pensa che l’assenza di dolore coincida con la felicità, ma non è vero, la felicità è un’altra cosa. Cosa ci manca nella realtà che migliorerebbe la nostra esperienza quotidiana di persone malate? Io nel mio libro – prendendo spunto da un film sul rugby con Al Pacino, in cui si guadagnano centimetri per portare la palla in meta – parlo concretamente di “quel centimetro che manca al malato, che può fare la differenza”. Nel concreto ciò può riguardare un bicchiere o un altro oggetto quotidiano, ad esempio la tastiera del pc, o il modo in cui viene impiattato il cibo. Compatibili lo si diventa se si fa qualcosa per andare verso la realizzazione di interfacce utili a chi ha dei problemi. Se non un’azione sociopolitica mirata, basterebbe solo un po’ più di buon senso per rendere le persone in grado di fare le cose con più facilità. Per questo nel libro ho creato degli elenchi di piccole cose che ti fanno stare bene nel mondo oppure no. Gli amici dei bar e ristoranti che frequento ad Arezzo hanno capito il mio problema e, per fare un esempio, invece che nella flûte, mi versano il prosecco in una bella coppa larga, dove riesco a berlo agevolmente. Si tratta di piccole cose concrete che migliorano l’esperienza del mondo. Quindi, bisogna resistere mantenendo un contatto positivo con la quotidianità, reagire alla malattia dimostrando di poter fare ancora le cose di prima, creare occasioni di sfida dei propri limiti che generino picchi di dopamina nel paziente. Io parlo di universal design: nell’economia delle interfacce, se queste funzionano per chi ha dei problemi, funzionano per tutti.

Un altro punto importante riguarda il caring; in un passaggio letto dal moderatore del report cultura e salute del Lancet, alcuni operatori sanitari si sono infatti chiesti: “come facciamo a prenderci cura dei pazienti, se non conosciamo il loro migliore interesse?” La standardizzazione della malattia pregiudica la capacità di curare, bisogna invece chiedersi che cosa ha valore nella vita dei diversi pazienti, perché questo getta una luce anche durante l’esperienza della malattia.

Riveste grande importanza anche prendersi cura dei bisogni delle persone che sono accanto ai malati, ossia comprendere i bisogni dei caregiver e dare valore alle relazioni significative. Le cure vanno infatti declinate in termini relazionali. Intorno ai pazienti, esistono le comunità di cura, i professionisti, i caregiver, ma esiste anche il diritto delle persone care a condividere quello che stanno vivendo perché la vita è fatta di relazioni, anche prendersi cura di un animale può aiutare.

Ivo Quaranta con il suo Centro lavora sulle disuguaglianze in salute, nelle periferie e con gli stranieri, promuovendo il diritto al significato: “Domandiamoci: cosa qualifica la vita delle persone? Su questo ho lavorato a un report per il Comune di Bologna, il panel dei giovani intervistati ha risposto: vedere gli amici, poter frequentare una sala da musica, insomma coinvolgere attivamente le persone. I dati raccolti dall’epidemiologia sociale, che ha una dimensione collettiva, ci parlano dei rapporti con il mondo”.

Native

Articoli correlati