Russia, il ritorno di Shoigu, il generale-ministro con i codici nucleari che vuole il Donbass
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Russia, il ritorno di Shoigu, il generale-ministro con i codici nucleari che vuole il Donbass

Torna a parlare il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, dopo che erano circolate voci sulla sua scomparsa, e sottolinea che adesso “l’obiettivo primario è liberare il Donbass”.

Russia, il ritorno di Shoigu, il generale-ministro con i codici nucleari che vuole il Donbass
Sergei Shoigu
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

29 Marzo 2022 - 18.20


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Quando parla è bene ascoltarlo. Perché è una delle tre persone in Russia che hanno i codici della bomba atomica. La Russia ha “raggiunto gli obiettivi principali della prima fase” della cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina. Torna a parlare il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, dopo che erano circolate voci sulla sua scomparsa, e sottolinea che adesso “l’obiettivo primario è liberare il Donbass”.

Liberare il Donbass

“Il potenziale di combattimento delle forze armate ucraine è stato significativamente ridotto, il che consente di concentrare l’attenzione principale e gli sforzi principali sul raggiungimento dell’obiettivo principale: la liberazione del Donbass”, ha detto in una teleconferenza.  “Leforze armate ucraine hanno subito danni considerevoli”, ha proseguito il ministro, “la superiorità aerea è stata raggiunta. L’aviazione e la rete di difesa aerea sono state praticamente distrutte. La marina del Paese ora è scomparsa. Tutte le formazioni d’assalto terrestre e aereo hanno subito perdite”, ha detto ancora Shoigu, “oltre 500 mercenari stranieri hanno lasciato il Paese e circa 600 mercenari sono stati eliminatinelle ultime due settimane”. “Le forze armate russe continueranno l’operazione speciale in Ucraina finché gli obiettivi prefissati non saranno raggiunti”, ha proseguito Shoigu, che ha infine assicurato che “i coscritti russi non saranno dispiegati nelle zone di combattimento”. Secondo il generale, l’esercito russo starebbe aiutando attivamente la popolazione delle autoproclamate repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk “a ristabilire una vita pacifica”, ha dichiarato. “6.079 tonnellate di aiuti umanitari sono stati consegnati a 210 insediamenti”, ha precisato. Infine un avvertimento alla Nato: “La Russia risponderà adeguatamente se la Nato consegnerà aerei da combattimento e sistemi di difesa aerea all’Ucraina”, ha detto il generale. “Stiamo seguendo le dichiarazioni dei leader dei singoli paesi della Nato sulla loro intenzione di fornire aerei e sistemi di difesa aerea all’Ucraina”. Se tale ipotesi dovesse concretizzarsi, ha avvertito il titolare della difesa russa, “reagiremo adeguatamente.

Il “giallo” di una scomparsa

Shoigu, nei giorni scorsi al centro di un “giallo” per essere scomparso per 13 giorni dalla scena pubblica che avevano alimentato speculazioni su una sua possibile malattia o su una sua emarginazione a causa dell’andamento della guerra in Ucraina, oggi è ricomparso in una nuova riunione al ministero delle Finanze. Prima della partecipazione alla riunione di oggi, due giorni fa l’agenzia di stampa Ria Novosti ha diffuso un video che mostra il presidente russo Vladimir Putin in collegamento con i membri del Consiglio di sicurezza nazionale, tra cui Shoigu, che avrebbe riferito dei “progressi dell’operazione militare speciale” in Ucraina. Il video arrivava poche ore dopo che il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aveva risposto a domande sui presunti problemi di salute di Shoigu che sarebbero stati all’origine della sua scomparsa: “Il ministro della Difesa ora ha molte preoccupazioni. È in corso un’operazione militare speciale. Naturalmente, ora non è proprio il momento per l’attività dei media, questo è abbastanza comprensibile”, aveva detto. 

Nell’intervento, che è stato video registrato e caricato sui social media del ministero della Difesa, russo, Shoigu ha anche detto “continuiamo a consegnare in anticipo sui tempi armi ed equipaggiamento, le priorità sono i missili a lungo raggio di alta precisione, i mezzi dell’aeronautica eil mantenimento dello stato d’allerta dell’apparato nucleare”. 

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Le truppe compensate

“I partecipanti all’operazione militare speciale in Ucraina hanno lo status di reduci combattenti, un sostegno che comprende anche i loro familiari” ha detto Shoigu. L’agenzia Tass rende noto infatti che oggi Vladimir Putin ha firmato la legge, approvata “all’unanimità” da Duma e Consiglio della Federazione nei giorni scorsi, che darà a tutti i militari che partecipano a quella che Mosca chiama operazione militare speciale, accesso “al sistema di protezione sociale garantito ai reduci dell’Afghanistan, Siria ed altri fronti caldi” che prevedono sovvenzioni statali, sgravi fiscali e assistenza medica. 

Ritratto di un generale in ascesa. Forse troppo.

 Ha 66 anni, è il ministro della Difesa russo la cui personalità, in questi anni, è cresciuta di peso sull’onda dei successi in Crimea e in Siria. Secondo i bene informati, Shoigu, avrebbe sviluppato la capacità di intuire e addirittura anticipare i desideri di Putin e sarebbe proprio lui la personalità chiave del conflitto in Ucraina. È proprio Shoigu ad avere il secondo dei codici nucleari necessari per lanciare i razzi atomici russi. Una delle chiavi è nelle mani di Putin, la terza è in possesso del capo di Stato maggiore interforze.

Non un militare ma un civile “privo di un addestramento militare appropriato” (anche se da tempo, sin da quando era ministro per le Situazioni di emergenza, indossa la divisa), segnalano, in un articolo pubblicato su Foreign Affairs  i due analisti specializzati nei servizi di sicurezza in Russia, Andrei Soldatov e Irina Borogan, fondatori di Agentura.ru, piattaforma dedicata ai servizi russi e autori di “I compatrioti: la storia brutale e caotica dei russi in esilio, emigrati e agenti all’estero”. In parallelo ai successi militari degli ultimi anni, ci sono però stati i flop dei servizi di intelligence, che si sono fatti smascherare nelle operazioni per l’avvelenamento di Sergei Skripal a Salisbury e contro Navalny in Siberia, che hanno completamente cambiato gli equilibri di potere a Mosca. Shoigu, ministro della Difesa dal 2012, era in precedenza, sin dagli anni Novanta, ministro per le Situazioni di emergenza, una carica con cui si è costruito una fama di risolutore di problemi. Originario di Tuva, la piccola repubblica della Federazione ai confini con la Mongolia, è laureato in ingegneria e non ha mai prestato servizio come militare. Ma da sempre, oltre a indossarne una, ha imposto agli ufficiali dello stato maggiore di indossare l’uniforme e sin da quando è diventato ministro ha reintrodotto l’uniforme sovietica del 1945, nota come l”uniforme della vittoria’.

Ha promosso la rivoluzione hi tech delle forze militari, istituendo il comando per le operazioni cyber, riunendo aeronautica e forze dello spazio, nelle forze aerospaziali. I suoi successi hanno aperto la strada a stanziamenti sempre più elevati. E le sanzioni hanno avvicinato gli oligarchi alla difesa nel ricostruire un nuovo complesso militar industriale. Ai miliardari che perdevano capitali con le misure occidentali venivano loro offerti lucrosi contratti nel settore. “Nelle settimane precedenti la guerra, molti analisti dubitavano che Putin avrebbe davvero dato il via a una guerra scelta su cosi larga scala. Ma la militarizzazione della società russa e la ricostruzione dell’apparato militare sotto Shoigu hanno fornito a Putin una tentazione insuperabile, una tentazione non frenata da considerazioni dell’intelligence o diplomatiche”, sostengono i due analisti. “E ora che l’assalto è violentemente in corso, le implicazioni complete della nuova strategia militare del Cremlino si stanno chiarendo: non solo la campagna è stata definita da un esercito che ha apertamente fatto sua la guerra, una guerra il più vasta possibile. Ma è anche guidata da Shoigu, un uomo che fino a ora ha vissuto solo successi e che non ha addestramento militare appropriato per capire che una vittoria sul campo, non importa quanto grande, può a volte portare a una sconfitta ancora più grande”, concludono i due autori. 

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L’arma del referendum

A darne conto, su fanpage.it, è Ida Artiaco.

“A breve a Lugansk, l’autoproclamata Repubblica filo-russa nella regione del Donbass, nell’est dell’Ucraina, potrebbe svolgersi un referendum per l’annessione a Mosca. È quanto ha dichiarato questa mattina il leader dei separatisti Leonid Pasechnik, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa russa Tass, anche se una data ancora non c’è. “Penso che nel prossimo futuro si terrà un referendum sul territorio della repubblica, in cui le persone eserciteranno il loro diritto costituzionale assoluto ed esprimeranno la loro opinione sul fatto di unirsi alla Federazione russa”, ha detto Pasechnik, prima di correggere il tiro affermando che “al momento non sono in corso preparativi” per la consultazione.

Mosca dal canto suo sembra aver accolto con favore la notizia. “Le repubbliche popolari di Luhansk e Donetsk hanno il diritto di decidere di diventare parte della Russia se ciò non contraddice le loro Costituzioni, Mosca riconosce la loro sovranità”, ha commentato il senatore russo Andrey Klishas, dando sostanzialmente via libera al progetto. Ma non tutti la pensano così. Per Leonid Kalashnikov, presidente della commissione della Duma per gli affari delle ex repubbliche sovietiche è “sconsigliabile” tenere ora referendum per l’annessione alla Russia delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. “Non penso sia consigliabile in principio – ha detto Kalashnikov, citato da Interfax – perché le due repubbliche erano fino a tempi recenti parte dell’Ucraina”.

A parlare di referendum nei giorni scorsi era stato anche il presidente ucraino Zelensky, definendolo “necessario per quanto riguarda le garanzie di sicurezza, lo status delle repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk e quello della Crimea. La gente dovrà dire la sua su certi formati di compromesso. E questo sarà, ed è, parte della conversazione e delle intese con la Russia”.

Quell’”oblast” che fa gola allo zar.

Territorio ad alto tasso russofono, ma anche e soprattutto un ricco bacino carbonifero. Questo è il Donbass, bacino del Donec, dal nome dell’omonimo fiume che lo attraversa. Una zona dell’Ucraina orientale al confine con la Russia, che si estende in tre ‘oblast’ (regioni), tra cui quello di Doketsk, la città principale. Nel Donbass oltre 770mila ucraini hanno il passaporto russo, su una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, e secondo Mosca negli ultimi giorni altri 950mila residenti hanno fatto la stessa richiesta. Con la “madre Russia” c’è un legame antico, rafforzato da una Chiesa ortodossa locale che si è staccata da quella ucraina per legarsi a Mosca. Questo legame si nutre anche dell’insofferenza della popolazione verso lo Stato centrale. Perché le condizioni generali di vita, dall’uscita dell’Ucraina dall’Urss, nel 1991, sono peggiorate progressivamente. E allo stesso tempo, sono cresciute le pulsioni secessioniste. 

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La miccia si accende nel 2014, quando dopo la rivolta filo-Ue di Maidan e la cacciata di Viktor Yanukovich dal potere, Mosca in reazione decide l’annessione della penisola della Crimea, nel sud dell’Ucraina. Da quel momento parte la mobilitazione anche del Donbass, con gruppi militari delle regioni di Lugansk e Donetsk che riescono in breve tempo a prendere il controllo di parte della regione, grazie all’appoggio occulto di Mosca, che fornisce denaro e armi. I secessionisti vittoriosi sul campo dichiarano l’indipendenza dall’Ucraina proclamando la nascita della Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Lugansk. In seguito organizzano un referendum, che secondo i leader ribelli ha un esito bulgaro: la stragrande maggioranza della popolazione vota a favore dell’annessione alla Russia.

Gli sforzi della diplomazia internazionale per riportare stabilità nell’area e porre fine ad un conflitto che ha provocato oltre 10mila morti conducono agli accordi di Minsk, che vengono sottoscritti sia dai filo-russi che da Kiev, sotto il cappello delle potenze occidentali, Francia e Germania, e della Russia. I combattimenti sulla carta devono finire ed il Donbass deve tornare sotto il controllo dell’Ucraina, in cambio di una maggiore autonomia. Ma le intese sottoscritte nella capitale bielorussa non sono risolutive, perché in parte non attuate per responsabilità di entrambe le parti. Mosca non è formalmente parte nel conflitto e quindi non si sente vincolata. Mentre le autorità di Kiev, su pressione della frangia nazionalista del Paese, non riescono a concedere l’autonomia ai separatisti. Ed il conflitto, anziché finire, è riesploso.

“L’offensiva della Russia e del nuovo mondo” titolava l’articolo di Petr Akopov, pubblicato alle 8 esatte del mattino di sabato 26 febbraio 2022, come riporta il sito internet www.open.online. Un elogio a Vladimir Putin, dichiarato vincitore del conflitto armato. Akopov scrive: “L’Ucraina è tornata in Russia”. L’articolo, rimosso, proclama Putin vincitore del conflitto e apripista per quello che potremmo definite un “Nuovo Ordine Mondiale” dove “il mondo russo” torna come il principale e indiscusso protagonista. Non solo l’Ucraina, l’autore dell’articolo parla dell’entrata della Bielorussia, domandandosi fino a dove arriveranno i confini dell’alleanza russa: “Il periodo della scissione del popolo russo sta volgendo al termine”, scrive ancora Petr Akopov.

Un articolo di elogio che sembra scritto da Putin piuttosto che dal giornalista russo. L’articolo si rivolge all’Europa e all’Ue accusandola di ingratitudine in quanto la loro nascita “è stata possibile solo grazie all’unificazione della Germania, accaduta grazie alla buona volontà russa”. Come Putin, Petr colpevolizza gli allora leader di Mosca definendo questa volontà una mossa “non molto intelligente”, ma poi compensa definendo colpevole di “stupidità geopolitica” l’Ue per aver osato allargare i propri confini nelle “terre russe”.

Annunciando il ritorno dell’Ucraina alla Russia, Petr sostiene che “l’Occidente assiste al ritorno della Russia con i suoi confini storici in Europa”, definendo gli occidentali come degli “sciocchi in geopolitica” in quanto da oltre 15 anni, dopo il discorso un Putin a Monaco, dovevano rendersi conto di una cosa: “La Russia sta tornando”.

In armi. In Ucraina. In una guerra d’aggressione giunta al suo 35°giorno.

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