Ucraina e Nato, a Kiev il dubbio amletico: entro o non entro?
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Ucraina e Nato, a Kiev il dubbio amletico: entro o non entro?

L'Ucraina potrebbe rinunciare all'obiettivo di entrare nella Nato se ciò può contribuire a evitare una guerra con la Russia. Ma...

Ucraina e Nato, a Kiev il dubbio amletico: entro o non entro?
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14 Febbraio 2022 - 14.07


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Entro o non entro? Il dubbio amletico aleggia a Kiev. 

L’ambasciatore “bipolare”

L’Ucraina potrebbe rinunciare all’obiettivo di entrare nella Nato se ciò può contribuire a evitare una guerra con la Russia. Lo ha dichiarato a Bbc Radio 5 Live l’ambasciatore di Kiev nel Regno Unito, Vadym Prystaiko, salvo fare poi retromarcia dopo la frenata dell’ufficio del presidente ucraino Zelensky. Prystaiko aveva espresso la disponibilità dell’Ucraina a essere “flessibile”, nonostante l’obiettivo di entrare nella Nato sia inserito nella Costituzione. A una domanda sulla possibilità che Kiev rinunci alla sua ambizione di far parte dell’Alleanza Atlantica, l’ambasciatore ha risposto: “Potremmo, soprattutto se veniamo minacciati così, ricattati così e spinti in questa direzione”.E’ un “fraintendimento” che l’Ucraina possa rinunciare all’ingresso nella Nato per evitare una guerra con la Russia. Ha poi chiarito alla Bbc l’ambasciatore  Prystaiko. “Dobbiamo semplicemente trovare una soluzione entro domani”, ovvero il giorno in cui Washington prevede l’attacco di Mosca, ha aggiunto il diplomatico. Prystaiko ha poi osservato che la Russia confina già con nazioni aderenti alla Nato e che quindi un ingresso dell’Ucraina “non cambierebbe la sua situazione di sicurezza”.

Il quotidiano tedesco Die Welt scrive oggi che il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha discusso con i membri del suo staff la possibilità di un compromesso con Mosca che preveda una moratoria “di 10 anni” sull’adesione dell’Ucraina alla Nato. Die Welt precisa però che le fonti che ne hanno riferito hanno detto che la discussione è stata portata avanti come “esperimento mentale”. Fonti ufficiali hanno però poi precisato  con Reuters che per Berlino una simile moratoria “non è sul tavolo”. Scholz è appena partito per Kiev per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, e domani si recherà a Mosca per un colloquio con il presidente russo. Vladimir Putin. Lo stesso tour diplomatico vedrà impegnato domani il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio.

Intanto, l’intelligence americana ha rivisto al rialzo la presenza di truppe russe al confine con l’Ucraina: sono 130mila, e non più 100mila, i militari che Washington stima essere stati inviati dal Cremlino alle porte del Paese e pronti ad entrare in azione in caso di escalation militare. Anche se ieri, come per tutte le scorse settimane, Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, è tornata a ribadire che la Russia non ha alcuna intenzione di invadere l’Ucraina.

I tre campi intrecciati

Di grande interesse è un documentato report di Marco Di Liddo per il CeSi (Centro Studi Internazionali”.

Rimarca Di Liddo: “In ogni caso, al di là delle narrative e dalle percezioni avanzate da ciascun governo, negli ultimi due mesi si è assistito al susseguirsi di avvenimenti ed allo sviluppo di inequivocabili tendenze empiriche che confermano l’apprensione internazionale verso una possibile escalation del conflitto ucraino e, più in generale, verso una possibile degenerazione del quadro di sicurezza in Europa. Innanzitutto, da inizio dicembre 2021, la Russia continua a mantenere un contingente di circa 100.000 truppe al confine orientale ucraino. Questo è cresciuto fino a 130.000 a febbraio 2022 ed è stato affiancato da altri 35.000 uomini presenti in Bielorussia. Infine, a questi vanno sommati i 2000 russi presenti in Transnistria, gli oltre 12000 presenti in Crimea ed un numero imprecisato di unità non ufficiali stazionate nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, i due soggetti para-statali dichiaratori indipendenti nel 2014 a seguito della Rivoluzione della Dignità (conosciuta in Europa con l’epiteto di Euromaidan) e la destituzione del Presidente ucraino Yanucovich. Alla presenza terrestre vanno altresì aggiunte le unità navali della Flotilla del Mar Nero e gli assetti aerei delle basi di Voronezh e Rostov sul Don. In sintesi, l’Ucraina è quasi completamente circondata da assetti militari russi. Anche se Mosca ha sempre giustificato la presenza di tali truppe a scopo addestrativo (esercitazioni) o come forma di deterrenza contro eventuali azioni ostili da parte della Nato nell’ultimo mese è aumentato il numero di pezzi di artiglieria, di carri armati e di blindati nonché, elemento più allarmante, sono stati intensificati i trasferimenti di equipaggiamento medico (ospedali da campo, sacche di sangue, medicinali). Questi ultimi, infatti, solitamente sono trasportati in prossimità del campo di battaglia nell’eventualità dello scoppio di ostilità e, quindi, nella necessità di dover prestare soccorso ai soldati feriti. Oltre ai movimenti militari, sempre nelle ultime settimane si è assistito all’incremento di attacchi informatici ai danni di siti istituzionali ucraini e ai sistemi che gestiscono gli sportelli automatici delle banche, nonchè ad una intensificazione della propaganda contro la Nato ed il governo ucraino sui social network, molto probabilmente orchestrati dal Gru (Direttorato Principale di Intelligence, il servizio militare russo). Come se non bastasse, negli ultimi giorni la Russia ha diminuito gradualmente lo staff nella sua ambasciata a Kiev, avviando una sorta di evacuazione soft del personale diplomatico dal Paese. 

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In tale contesto, i fatti sembrano apparentemente smentire le rassicurazioni formali del Cremlino sulla assoluta intenzione di non invadere l’Ucraina. Di contro, Kiev ha mobilitato circa 120.000 truppe, la maggior parte delle quali rivolte ad est, nelle vicinanze della linea del fronte del Donbas, ed ha potuto usufruire del supporto occidentale, rappresentato dall’addestramento fornito dal 2014 dagli USA e dalla fornitura di equipaggiamenti militari (sistemi d’arma, munizioni, apparecchiature mediche ecc.) fornite da alcuni partner europei. Parallelamente, sia l’Ucraina che, soprattutto, i membri NATO dell’Europa orientale, hanno beneficiato della decisione statunitense di inviare altri 2000 soldati nel continente e di muoverne altri 1000 dalla 

Germania alla Romania. Altri 8500 sono in stato di allerta nelle basi in North Carolina, pronti ad una immediata partenza alla volta dell’Europa in caso di necessità. 

In questo contesto, sussistono molteplici fattori di tensione e molteplici situazioni ad alto rischio. Innanzitutto, la presenza di unità militari in stato d’allerta in quadranti volatili e precari come quelli dei conflitti congelati (Donbas, Crimea e Transnistria), dove un semplice incidente o una provocazione (reale od orchestrata) può rapidamente condurre ad una intensificazione repentina della violenza armata. In secondo luogo, con il passare dei mesi, la crisi ucraina si è trasformata nel pretesto “tattico” di una più ampia contesa “strategica” tra Russia e Stati Uniti che ha come oggetto l’architettura della sicurezza in Europa. Il destino del Donbas o della Crimea ha una importanza relativa in questo momento, poiché la vera ragione del conflitto è la ricerca di un nuovo equilibrio tra Nato (Stati Uniti) e Russia. Nello specifico, tale confronto russo-statunitense si articola su quattro piani differenti ma tutti, strettamente, interconnessi: militare, politico, economico e simbolico. 

Sotto il profilo militare, la Russia si oppone fermamente all’ingresso dell’Ucraina nella Nato poiché si sente minacciata dall’espansione ulteriore dell’Alleanza ai suoi confini. Mosca non solo esige lo status di permanente neutralità dell’Ucraina ma, altresì, vorrebbe che la Nato ritirasse le proprie truppe dai paesi dell’Europa orientale, limitando la sua presenza operativa ai confini del 1997. Mentre la prima richiesta appare la più credibile, la seconda risulta essere una autentica provocazione, una sorta di “offerta” di partenza dal costo volutamente altissimo e quasi assurdo nella consapevolezza della necessità di compromessi futuri. Ovviamente, tanto gli Stati Uniti quanto gli altri membri della Nato si oppongono all’ipotesi del ritiro dal fronte orientale, anche se devono scontare una profonda diversità di vedute circa il dossier della neutralità ucraina. Infatti, mentre Washington e Londra non vogliono neppure considerare tale eventualità, Berlino e Parigi non la scarterebbero a priori, soprattutto nel momento in cui essa potesse condurre ad una normalizzazione dei rapporti con Mosca. Anche in questo caso, la volontà del governo e del popolo ucraino sembra passare in secondo piano, fagocitata dal negoziato russo-statunitense. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il fatto che il dossier sull’allargamento dell’Alleanza Atlantica, che attualmente sarebbe fermo proprio a causa della presenza di un conflitto sul territorio ucraino e sulla mancanza di integrità territoriale di Kiev, potrebbe in realtà nascondere la necessità del negoziato su un altro tema cruciale: il dispiegamento di missili sul territorio europeo. Infatti, con la scadenza ed il mancato rinnovo del trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) da parte degli Stati Uniti nel 2019, che accusavano la Russia di reiterate violazioni, la questione della sicurezza nucleare e della non-proliferazione è rimasta sospesa, alimentando preoccupazione e tensione a Mosca. Nel complesso, è l’insieme dei due dossier (allargamento atlantico e assenza di un nuovo INF) a rendere il negoziato tra Casa Bianca e Cremlino sulla crisi ucraina ancora più complicato. Questo anche perché, oltre ai missili balistici di teatro (o di medio raggio) esiste un preoccupante vuoto normativo circa i missili cruise lanciati da vettore aereo e navale, settore in cui, negli ultimi decenni, tanto gli USA quanto la Russia hanno avuto conosciuto significativi progressi tecnologici e capacitivi. 

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Sotto il profilo politico, il confronto tra Washington e Mosca ha rilevanza interna ed internazionale. Per il Cremlino, l’allargamento ulteriore della Nato ad est sarebbe una grave sconfitta diplomatica e corrisponderebbe ad un pesante ridimensionamento del peso e del ruolo globale che il Paese ha faticosamente riacquistato nell’era putinista. Viceversa, impedire a Kiev di entrare a far parte dell’alleanza atlantica sancirebbe la forza diplomatica della Russia e metterebbe in evidenza le divisioni tra le due sponde dell’Atlantico. Minare l’unità della Nato e creare fratture tra gli Stati Uniti e l’Europa è, da sempre, uno degli obbiettivi strategici di Mosca. Inoltre, non bisogna sottostimare il fatto che la Nato porta con sé l’ingresso nel campo occidentale, storicamente ha coinciso (in molte occasioni) ad un preludio per l’ingresso nell’Ue e potrebbe condurre ad un concreto avanzamento delle pratiche democratiche in Ucraina. Quest’ultimo aspetto è il principale incubo di Putin che teme l’effetto contagio all’interno della Russia e, dunque, l’avvio di una lunga stagione di proteste in grado di minare la solidità del suo sistema di potere. In tal senso, non bisogna mai dimenticare l’impatto che ebbe la Rivoluzione ucraina sulla società civile russa in termini di stimolo alla mobilitazione sociale ed alla critica alla classe politica, soprattutto da parte delle generazioni più giovani. Da par suo, il Presidente Joe Biden auspica esattamente questo scenario: una serie di proteste di massa in grado di porre fine al sistema di potere putinista ed a quello che rappresenta in Russia e all’estero. Nello specifico, Mosca, assieme a Pechino, è il principale alfiere della ridefinizione dell’ordine politico globale e del superamento del monocentrismo statunitense in favore di un ritorno ad un oligopolio multilateralista e basato sulle sfere d’influenza. Questo sarebbe un segnale indirettamente rivolto anche alla Cina e a tutti quei Paesi che, a partire dal secondo mandato di Obama, si sono ritagliati uno spazio di intraprendenza ed autonomia internazionale sempre più ampio (Iran, Monarchie del Golfo e Turchia su tutti). Dunque, “sconfiggere” Putin alle porte di casa sua ribadirebbe la forza statunitense sul piano internazionale. Parallelamente, l’inquilino della Casa Bianca ha fatto della fermezza nei confronti del Cremlino una delle sue principali battaglie, soprattutto in contrapposizione all’atteggiamento ritenuto permissivo del suo predecessore Donald Trump e come forma di rappresaglia per le presunte operazioni di ingerenza elettorale e politica russe nei confronti degli Usa che hanno, a suo dire, facilitato la vittoria repubblicana nel 2017 e contribuito alla polarizzazione dell’opinione pubblica statunitense (deflagrata violentemente con l’assalto al Campidoglio). 

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Tuttavia, è sotto il profilo economico che si gioca la battaglia principale. L’obbiettivo statunitense è allentare o addirittura neutralizzare i legami commerciali tra Russia ed Europa, con una attenzione specifica all’energia ed alle terre rare. La dipendenza europea dal gas russo è un dato noto e rappresenta la spina dorsale delle relazioni economiche tra Mosca ed il resto del continente. Relazioni indispensabili tanto per i Paesi importatori quanto per la Russia esportatrice, la cui economia si basa quasi esclusivamente sulla vendita di idrocarburi. Tuttavia, oltre al gas ed al petrolio, la Russia è tra i cinque primi Paesi al mondo per riserve accertate di terre rare, vale a dire dei minerali indispensabili alla produzione di alta tecnologia. La possibilità che la dialettica euro-russa si espanda anche al settore minerario spaventa gli Stati Uniti. Washington, infatti, da quando è diventata esportatore netto di idrocarburi grazie ai progressi nell’industria estrattiva non convenzionale, non ha mai nascosto la volontà di aggredire il lucroso mercato europeo, iniziando dalla Polonia. Tuttavia, per fare questo, occorre innanzitutto rendere più difficoltose le relazioni tra Europa e Mosca al fine di politicizzare il dossier energetico e sostituirsi alla Russia quale principale fornitore europeo. Tuttavia, questo può avvenire soltanto previa una decisione politica, poiché, dati alla mano, il gas statunitense costerebbe di più di quello russo e necessiterebbe di investimenti per la costruzione di impianti di rigassificazione. Per questa ragione, la crisi ucraina ed il dossier sul Nord Stream 2, al quale gli Stati Uniti si sono opposti con tutta la loro forza diplomatica ma con scarsi risultati, sono molto più connessi di quanto possa apparire ad un primo sguardo. Ovviamente, su questo tema, Europa e Stati Uniti sono agli antipodi. Infatti, per quanto i Paesi europei siano consapevoli dei costi politici di una tale dipendenza energetica, le necessità economiche e la certezza di avere un fornitore affidabile e prezzi concorrenziali sono scogli difficili da superare. In questo, l’esempio tedesco è illuminante: dal 2014 ad oggi, nonostante i molteplici attriti tra Berlino e Mosca su un numero esteso di temi (ucraina, interferenza elettorale, caso Navalny), il Nord Stream 2 ha proceduto abbastanza spedito verso la realizzazione e non è mai stato, realmente, messo in discussione. Una escalation militare in Ucraina comprometterebbe l’intero quadro securitario europeo e renderebbe oggettivamente più difficile mantenere l’attuale stato dei rapporti economici tra la Cancellerie continentali e Mosca. Tutto questo senza dimenticare la stessa ucraina è ricca di risorse energetiche e minerarie nelle mire di società statunitensi, russe ed europee (Francia e Germania su tutte)…”. 

Insomma, tutto è in gioco. Ed è un gioco ad altissima tensione che rischia di sfociare in una guerra ad alta intensità. 

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