Pensate a un ragazzo ammanettato nella gabbia degli imputati.
Pensate a un ragazzo detenuto da 19 mesi in un carcere di massima sicurezza egiziano, un inferno in terra.
Cercate di entrare nei suoi pensieri, di condividere il suo dolore, la sua angoscia, la sua rabbia. E poi pensate al presidente-carceriere che lo tiene in ostaggio da 19 mesi. Pensate a Patrick Zaki.
Cinque minuti
Diciannove mesi d’attesa per una seduta di cinque minuti. Tanto è durata la prima udienza del processo allo studente egiziano. Cinque minuti, l’ennesima presa in giro della cosiddetta “giustizia” egiziana. Cinque minuti. Il tempo perché Patrick potesse lanciare il suo j’accuse: “Non so perché sono in carcere, rilasciatemi. Ho esercitato solo libertà di parola” ha detto ilo giovane. Un ragazzo in manette ha dato corpo e voce alla dignità di chi sa di essere nel giusto. I suoi carcerieri togati hanno ricordato cosa sia la vergogna di un regime di polizia. Il governo italiano deve scegliere, con i fatti, da che parte stare: da quella della dignità o dalla parte della vergogna.
Il falso “contentino”
Cadute le accuse più gravi di incitamento al “rovesciamento del regime” e al “crimine terroristico” che avrebbero comportato fino a 25 anni, come reso noto da dieci Ong egiziane l’accusa ora è di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese” sulla base di un articolo pubblicato due anni fa.
“Questa svolta però non significa niente: i magistrati potrebbero assolverlo e poi processarlo di nuovo”, ha precisato al Corriere Amr, uno degli attivisti della campagna di liberazione per Patrick.
Le sentenze del Tribunale per la sicurezza dello Stato davanti al quale comparirà il 30enne sono inappellabili, hanno precisato le Ong, tra cui quella per cui Patrick lavorava come ricercatore, l’Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr). La Corte è la numero 2 per i “reati minori” (detta anche “d’urgenza”) di Mansura, la città sul delta del Nilo, circa 130 km a nord del centro del Cairo, dove Patrick è nato e vissuto fino al momento di andare all’università nella capitale, dove ora risiede la famiglia.
“L’accusa di aver pubblicato un articolo in cui racconta i fatti della sua vita di cristiano egiziano” non fa altro che “confermare che l’unico motivo per privarlo della sua libertà è il suo legittimo esercizio della libertà di espressione per difendere i suoi diritti e quelli di tutti gli egiziani, in particolare i copti, all’uguaglianza e alla piena cittadinanza”, denunciano le Ong egiziane.
“Io credo che in questo momento serva la massima attenzione da parte di tutte le diplomazie, dell’Europa, dell’Italia, perché è un passaggio molto molto delicato. Noi lo stiamo seguendo con molta trepidazione e poi oggi a sera vedremo cosa è successo”, ha commentato il rettore dell’Università di Bologna Francesco Ubertini. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia “è evidente che la procura egiziana, con l’approssimarsi della scadenza dei 24 mesi di detenzione preventiva, da quell’enorme castello di prove segrete, mai messe a disposizione della difesa, avrebbe tirato fuori una cosa per giustificare l’inizio di un processo». In questo quadro, sempre per Noury, “è fondamentale che il governo italiano dia seguito alla richiesta del Parlamento italiano di concedere allo studente la cittadinanza italiana” e che alzi i toni con il regime di Abdel Fattah al- Sisi perché “ogni minuto che passa è perso”.
“Zaki a processo è anche uno schiaffo (l’ennesimo) all’Italia. Stupisce come il governo ami farsi schiaffeggiare. Evidentemente alcuni interessi, innanzitutto quello legato al traffico d’armi, sono più forti di tante chiacchiere”, scrive su Twitter l’europarlamentare del Partito democratico Pierfrancesco Majorino.
“Ovviamente siamo preoccupati, la vicenda è veramente sorprendente, per non dire surreale. Speriamo che le cose possano trovare una loro composizione al più presto e mi auguro che tutte le istituzioni possano lavorare in tal senso”. Così Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, commenta il rinvio a giudizio di Patrick Zaki “In chi come noi si batte per la sua liberazione, per il suo ritorno a poter studiare qui a Bologna, c’è preoccupazione, inquietudine. Speriamo che tutto possa risolversi al meglio”.
“Come 19 mesi fa, Patrick è a Mansura e Bologna ritorna in piazza. Abbiamo sperato che non ce ne fosse bisogno ma ci tocca. Ci saranno tante persone come l’8 febbraio del 2020 a Bologna in piazza Maggiore a chiedere ‘Free Patrick Zaki’“. Così il portavoce di Amnesty International Italia annuncia un flashmob per stasera nel capoluogo emiliano, città dove Patrick frequentava un master europeo presso l’Alma Mater.
Odissea infinita
Patrick era stato arrestato in circostanze controverse il 7 febbraio del 2020 ed è stato detenuto per quasi tutto il tempo a Torah, il famigerato carcere alla periferia sud del Cairo. La custodia cautelare in Egitto può durare due anni e dopo una prima fase di cinque mesi di rinnovi quindicinali ritardati dall’emergenza Covid il caso è stato a lungo in quella dei prolungamenti di 45 giorni.
“I parlamentari e le parlamentari che, al Senato e alla Camera, hanno detto con un voto chiaro e forte che Patrick Zaki è un cittadino italiano, facciano sentire la loro voce in modo altrettanto chiaro e forte nei confronti del governo, ora che inizia il processo”, rimarca Noury. In caso di condanna al massimo della pena prevista per questo tipo di reato, Zaki rischia di rimanere in carcere altri 3 anni e 5 mesi. “Sì, legalmente è vero. Non abbiamo motivo di immaginare che la pena sarebbe conteggiata diversamente”, ha detto all’Ansa Lobna Darwish dell’Eipr, l’“Iniziativa egiziana per i diritti personali”, rispondendo alla domanda se i mesi già trascorsi in carcere da Patrick gli verrebbero abbonati in caso di condanna. In caso di una sentenza inferiore ai 19 mesi, dovrebbero liberarlo subito.
“Qualsiasi egiziano che ha pubblicato notizie, comunicazioni o indiscrezioni sulla situazione interna in modo tale da danneggiare lo Stato e gli interessi nazionali sarà condannato al carcere tra i 6 mesi e 5 anni e a una multa tra 100 a 500 sterline egiziane ai sensi dell’articolo 80 della legge”, avevano ricordato all’Ansa nel giugno scorso fonti giudiziarie riferendosi al caso di Patrick. A causa dell’inflazione altissima in Egitto soprattutto negli anni passati, ormai 100-500 sterline egiziane valgono tra 5 e 27 euro.
“Zaki o mai”.
Scrive Francesca Paci su La Stampa “Al crocevia tra le umane sorti e progressive e la ragion di Stato sta Parick George Zaki, un simbolo ormai che, forzando parecchio la mano, può evocare addirittura l’accanimento contro Dreyfus, il capro espiatorio per eccellenza della cattiva coscienza allora antisemita. Zaki, il volto di una generazione bruciata a Tahrir ma anche l’epigono delle speranze copte in un regime inizialmente considerato salvifico, rappresenta molto più del ragazzo che è. Per l’Egitto, dove lo scontro con l’intellighenzia liberal e cosmopolita è l’estrema fase della guerra per accaparrarsi la narrazione degli ultimi vent’anni. E per l’Italia, che non ha rinunciato a chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni ma che, incassando un rimpallo dietro l’altro, si è fatta afona, defilata. Per questo non possiamo mollare Zaki. Perché è un simbolo e porta dentro di sé tutti gli innominabili Regeni egiziani. Insiste, il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury a domandare “all’amico al Sisi” una prova del legame che unisce l’Italia all’Egitto. Insistono i compagni bolognesi, le tante amministrazioni che hanno già concesso la cittadinanza, insiste chi pure non si aspetta nulla dall’udienza di oggi. Per l’Egitto e per l’Italia. O Zaki o mai”.
Quel carcere, un inferno.
Così Antonella Napoli tratteggia, in un articolo per Avvenire, del carcere di massima sicurezza in cui è imprigionato Patrick: “Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19…”.
Ed ancora: “Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire.
Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione ‘Scorpion’ – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione’ conclude l’attivista.
Non sorprende che ai prigionieri della ‘Scorpion’ venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio”.
Più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni). Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre 60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi.
Un inferno carcerario da cui Patrick deve uscire. Zaki o mai.