Il nuovo governo dei Talebani in Afghanistan “senza alcun dubbio, sarà un governo islamico. Qualunque sia la combinazione, che sia islamico è garantito”. Lo ha detto il portavoce Zabihullah Mujahid, in un’intervista alla Cgtn, canale in lingua inglese del network statale cinese Cctv. Mujahid ha aggiunto di sperare che le discussioni e le consultazioni sulla formazione dell’esecutivo portino a una buona conclusione. dei talebani è improbabile ma non escluso, quello che è certo è che non avranno “ruoli apicali”. Lo dice, in un’intervista alla Bbc, il vice capo dell’ufficio politico dei talebani in Qatar sottolineando che le donne “potranno continuare a lavorare” e ad occupare “posti minori” nel governo. Ma “potrebbero non esserci dei ruoli di primo piano” per loro nell’esecutivo.
Messaggio all’Italia
“Spero che l’Italia riconosca il nostro governo islamico e che riapra presto la sua ambasciata”. Lo dice in un’intervista a Repubblica il portavoce dei talebani, Zabiullah Mujahid, che spiega che nel nuovo Afghanistan “non ci saranno donne ministro, ma potranno lavorare nei ministeri oppure come poliziotte o infermiere. Potranno anche studiare all’università”. Per contrastare la crisi economica, invece, i talebani puntano sulla Cina: “Pechino ci aiuterà a ricostruire il Paese, sarà il nostro partner principale” “Tutti i soldi sono stati spesi per la guerra, ora è tempo di ricostruire. Per questo abbiamo bisogno di migliorare le nostre relazioni internazionali e accreditarci davanti ai governi di tutto il mondo. Siamo consapevoli che abbiamo davanti un lavoro enorme, ma stiamo ponendo le basi per una profonda trasformazione del Paese”, dice Mujahid.
“La Cina è il nostro partner principale e rappresenta per noi una fondamentale e straordinaria opportunità poiché è disponibile a investire e ricostruire il nostro Paese”, dice ancora il portavoce dei talebani. Quanto ai rapporti con la Russia, Mujahid assicura che “continuiamo a mantenere ottime relazioni con un partner importante e con un peso fondamentale per la regione come la Russia. Le relazioni con Mosca sono principalmente politiche ed economiche. La Russia continua a mediare per noi e con noi per creare le condizioni per una pace internazionale”.
A cosa mira il Gigante cinese
A spiegarlo molto bene è Giorgio Cuscito in una documentata analisi su limesonline: “Nel breve periodo, la Repubblica Popolare Cinese approfitterà del ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan per criticare la politica estera americana. Tuttavia, è presto per definire l’evacuazione in corso e l’ascesa dei Taliban un successo per Pechino. I recenti attentati all’’aeroporto di Kabul, attribuiti al Stato Islamico nella Provincia del Khorasan (Isis-K, branca locale dello Stato Islamico), sono un esempio delle difficoltà che gli studenti hanno e avranno nel mantenimento della stabilità del paese confinante con la Repubblica Popolare. E quindi degli ostacoli che il governo cinese potrebbe incontrare se e quando tenterà di espandere la sua presenza economica e securitaria in Afghanistan.
Pechino ha beneficiato a lungo dell’intervento americano nel paese centroasiatico e poi in Iraq a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001. Nell’arco di vent’anni gli Usa hanno investito tempo, denaro ed energie nella cosiddetta ‘guerra del terrore’, mentre la Cina riduceva il divario economico e militare che la separa dalla superpotenza a stelle e strisce. Ora Washington preferisce concentrare i propri sforzi nel contenimento della Repubblica Popolare nell’Indo-Pacifico e lasciare l’Afghanistan al suo destino. Con l’auspicio che Cina e Russia compiano l’errore tattico di impiegare le proprie Forze armate sul posto, disperdendo a loro volta preziose risorse.
Da tempo gli strateghi cinesi ragionano su come trasformare in opportunità il dossier afghano senza essere obbligati a intervenire militarmente. Soprattutto da quando il 29 febbraio 2020 Washington e gli studenti hanno siglato l’accordo di Doha, che ha sancito i termini del ritiro americano. Oggi i taliban hanno bisogno della legittimazione delle potenze straniere per sopravvivere e tenere il territorio. Pechino è disposta a fornire loro il proprio sostegno a patto che non ledano gli interessi domestici ed esteri della Repubblica Popolare.
La priorità della Cina è assicurarsi la stabilità del confine tra Afghanistan e Xinjiang. Nella regione è in corso l’assimilazione violenta degli uiguri (musulmani e turcofoni) all’etnia han, su cui si impernia il percorso di formazione dell’identità nazionale della Repubblica Popolare. Lo scorso luglio a Tianjin, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha chiesto ai Taliban di recidere i contatti
con il Movimento Islamico del Turkestan Orientale. Si tratta del gruppo terroristico formatosi nel Xinjiang, addestrato in passato da al-Qāʿida e dagli studenti e considerato responsabile degli attentati avvenuti nella Repubblica Popolare tra il 2013 e il 2014. Attentati che hanno spinto il governo del presidente cinese Xi Jinping a lanciare una dura campagna antiterrorismo e di repressione nei confronti della minoranza uigura. A ciò si aggiunga che in Afghanistan permane il sopramenzionato gruppo jihadista Isis-K. Durante la guerra in Siria, lo Stato Islamico considerava la Repubblica Popolare un potenziale bersaglio e ha accolto tra le sue fila estremisti uiguri. Pechino continuerà a pattugliare attentamente il confine con l’Afghanistan per impedire infiltrazioni jihadiste tramite il sottile corridoio di Wakhan.
Contestualmente, Pechino vorrebbe espandere i suoi investimenti infrastrutturali in Afghanistan, consapevole che il nuovo governo di Kabul potrebbe servirsene per migliorare la condizione di vita della popolazione (quindi ottenerne il consenso) e che Washington ha congelato le riserve valutarie afghane depositate negli Stati Uniti. Nel 2020 il valore dei progetti cinesi sul posto è stato di 110 milioni di dollari, il 159% in più rispetto al 2019.
Già prima del ritorno dei Taliban al potere, Pechino aveva proposto a Kabul di partecipare al corridoio infrastrutturale in costruzione tra il Xinjiang e il porto pakistano di Gwadar. Gli strateghi cinesi considerano questo tratto delle nuove vie della seta essenziale per individuare un punto di accesso all’Oceano Indiano alternativo a quello passante per il Mar Cinese Meridionale e lo Stretto di Malacca, puntellati da basi militari Usa. Pechino potrebbe cogliere l’occasione anche per attingere a piene mani alle riserve minerarie (terre rare e litio) presenti nel suolo afghano e cruciali nella partita tecnologica con gli Usa. Il quotidiano cinese Global Times fornisce qualche indizio su cosa la Cina si aspetta dai Taliban in chiave anti-Usa in cambio dei propri investimenti. Secondo la testata legata al Quotidiano del Popolo, questi dovrebbero formare un governo inclusivo per “non fornire più alle potenze esterne pretesti per intervenire in futuro”. Tradotto: preservate il controllo del territorio senza attirare le ire di Washington, che altrimenti potrebbe decidere di calcare ancora il suolo afghano. Inoltre, i Taliban dovrebbero ‘mantenere le distanze’ dagli Usa e dalle altre ‘forze ostili alla Cina’. Insomma, dovrebbero avvicinarsi a Pechino in funzione antiamericana…. La Cina non intraprenderà nuovi massicci investimenti in Afghanistan fino a quando non giudicherà la situazione sul territorio sufficientemente stabile da garantire l’incolumità dei suoi lavoratori. Non è escluso che, una volta avviati i nuovi progetti, le imprese siano accompagnate da società di sicurezza private, il cui ruolo lungo le nuove vie della seta è in espansione. In tal caso, il loro scopo sarebbe tutelare lo sviluppo dei progetti e scandagliare meglio il territorio afghano per scopi securitari, posto che al momento un intervento militare cinese sul posto è assai improbabile.”, conclude l’analista di Limes.
Il capo dei capi
Intanto, i Talebani si apprestano a nominare il leader religioso Haibatullah Akhundzada come suprema autorità dell’Afghanistan. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti, secondo le quali Akhundzada avrà un titolo simile a quella dell’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema dell’Iran. L’annuncio dovrebbe arrivare giovedì. Il Mullah Abdul Ghani Baradar, co-fondatore dei talebani, dovrebbe essere nominato alla guida delle operazioni giornaliere del governo. Che le donne possano entrare a fare parte nel nuovo governo Lo sceicco, il cui nome significa “dono di Dio”, è nato circa 60 anni fa nel distretto di Panjwai a Kandahar, tradizionale roccaforte degli studenti coranici. Negli anni ’80 è stato coinvolto nella resistenza islamista contro i sovietici, ma la sua reputazione è più quella di un leader religioso che di un comandante militare. Per anni è stato una figura di spicco nei tribunali talebani e si ritiene che abbia emesso sentenze a sostegno delle punizioni islamiche, come le esecuzioni pubbliche di assassini e adulteri e l’amputazione dei condannati per furto. Ha servito come vice del precedente capo talebano Akhtar Mohammad Mansour, ucciso in un attacco di droni statunitensi il 21 maggio. Quest’ultimo lo ha nominato successore nel suo testamento. Per 15 anni Akhundzada ha insegnato e predicato in una moschea a Kuchlak, una città nel sud-ovest del Pakistan. E nel 2016 è diventato il leader dei mujaheddin. Akhundzada è noto per le sue opinioni intransigenti e, secondo gli esperti, è improbabile che porti un rinnovamento nel gruppo. Secondo quanto riferiscono i media internazionali probabilmente Akhundzada lascerà gestire il governo quotidiano al mullah Abdul Ghani Baradar, che dovrebbe diventare il secondo nella catena di comando del nuovo governo.
Si spara ancora
La provincia del Panjshir a nord di Kabul continua a essere contesa e area di guerra. Compresa in una lunga e stretta valle, la provincia è difesa da ex soldati e membri delle forze di sicurezza afgane, che negli ultimi mesi hanno trovato rifugio nella zona e si sono uniti agli abitanti che non accettano il regime talebano. Gli scontri sono proseguiti anche in questi giorni, mentre l’attenzione dei media era concentrata sulla situazione caotica all’aeroporto di Kabul con le operazioni di evacuazione di soldati e civili prima della partenza degli ultimi soldati occidentali.
Nelle ultime ore Muhammad Jalal, tra i principali rappresentanti dei talebani, ha scritto sui social network che i combattimenti nel Panjshir si sono intensificati tra mercoledì e giovedì, con progressi nella conquista di alcuni avamposti da parte talebana. Jalal ha sostenuto che i combattenti talebani abbiano conquistato almeno una decina di postazioni dei ribelli, ma al momento non è stato possibile verificare da altre fonti le sue dichiarazioni. I presunti progressi sono stati attribuiti da Jalal al «governo», come avvenuto nei giorni scorsi per altre attività condotte dai talebani a Kabul e in altre aree dell’Afghanistan. La valle del Panjshir fu un punto centrale sia della resistenza afghana contro i sovietici, che occuparono l’Afghanistan negli anni Ottanta, sia contro il successivo governo dei Talebani, che non riuscirono mai a conquistarla.
I primi agenti della Cia che entrarono in Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, in preparazione dell’invasione americana che iniziò poi a ottobre, andarono proprio nel Panjshir per assicurarsi l’appoggio della resistenza anti-talebana che allora si chiamava Alleanza del Nord. La situazione odierna è però diversa rispetto a venti anni fa: il Panjshir è sostanzialmente isolato e non può più contare sui territori verso il confinante Tagikistan controllati un tempo. Le stesse forze militari sono poche e non molto attrezzate, stimate intorno alle 2.000-2.500 unità. I talebani hanno molti più combattenti, possono contare sui rinforzi da altre province e sulla disponibilità di un maggior numero di armi, come quelle statunitensi confiscate all’esercito afghano man mano che si dissolveva.
Ahmad Massoud, figlio di Ahmad Shah Massoud, capo militare che si oppose sia all’occupazione dei sovietici sia ai talebani, sta cercando di accreditarsi come leader del nuovo movimento di resistenza. Ha detto di volere seguire l’esempio del padre e difendere «l’ultimo bastione dell’Afghanistan libero».
Amir Khan Muttaqi, altro esponente dei Talebani, ha affermato che nei giorni scorsi erano stati avviati senza successo alcuni contatti per trattare una resa pacifica del Panjshir: “Ora che tutto l’Afghanistan è pacificato, e i mujihaddin sono vittoriosi, perché il popolo del Panjshir deve ancora soffrire? Coloro che vogliono continuare a combattere dovrebbero sapere quando è il caso di fermarsi. Non si poteva fare nulla senza il sostegno della Nato e degli Stati Uniti in questi anni. Non dovrebbero continuare a combattere, dovrebbero unirsi all’Emirato Islamico”.
Il Panjshir è la provincia in cui si combatte di più, ma non è l’unica in cui si sono verificati scontri. Negli ultimi giorni sono stati segnalati sporadici combattimenti nelle province afgane di Wardak e di Daikundi, dove vivono alcuni gruppi di hazara, minoranza sciita da tempo organizzata in milizie. Alcuni di questi gruppi si sono rifiutati di arrendersi e di riconoscere il nascente governo talebano.
La “diplomazia delle armi” è ancora attiva nell’Afghanistan dei misantropi di Allah.