Ciò che indigna è il silenzio assordante dei grandi della Terra. Ciò che stupisce è lo stupore di chi fa finta di non sapere che non c’è un giudice a Riad. Ciò che dovrebbe suscitare ripulsa in un Occidente, in una Europa che continua a vantarsi del suo essere libera, democratica, civile, rispettosa dei diritti umani, e poi continua a vendere bombe, a tonnellate, ai governanti del Regno Saud, bombe che hanno provocato migliaia di vittime civili nel martoriato Yemen. Per non parlare di Donald Trump, che considera l’Arabia Saudita, assieme a Israele, il più fidato alleato in Medio Oriente. La notizia ha fatto il giro del mondo: per l’omicidio di Jamal Khashoggi i giudici sauditi hanno condannato in via definitiva 5 imputati a 20 anni. A renderlo noto, ieri, la tv di Stato araba. Duro il commento da parte dell’Onu: “E’ l’ennesimo atto di questa parodia della giustizia”, queste sentenze “non hanno legittimità legale o morale”.
In Arabia Saudita gli omicidi vengono condannati solitamente con la pena di morte o l’ergastolo. Le pene vengono ridotte nel caso in cui i familiari delle vittime “perdonino” l’assassino in cambio generalmente di soldi. A maggio, la famiglia dell’ex editorialista del Washington Post aveva dichiarato di “perdonare” i killer, aprendo così la strada a una revisione della condanna a morte inflitta in primo grado a 5 imputati. Un annuncio giunto nelle ultime ore del mese di Ramadan, in linea con la tradizione islamica che permette simili gesti di clemenza, accompagnato da forti polemiche per i precedenti trasferimenti da parte delle autorità del Regno di denaro e altri beni ai figli del reporter.
Indignazione e complicità
Il verdetto saudita sul caso Khashoggi è “l’ennesimo atto di questa parodia della giustizia”, queste sentenze “non hanno legittimità legale o morale”. Così la responsabile Onu per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie Agnes Callamard, ha commentato su Twitter la sentenza. Callamard ha denunciato il fatto che “i funzionari di alto livello che hanno organizzato l’esecuzione sono rimasti liberi fin dall’inizio“ e il principe saudita Mohammed Bin Salman “è rimasto ben protetto da ogni tipo di indagine significativa nel suo Paese”.
“Una farsa”. Così Hatice Cengiz, la fidanzata di Jamal Khashoggi, ha definito la sentenza del tribunale che in Arabia Saudita ha condannato a pene detentive otto persone in relazione all’omicidio del giornalista e ha accusato Riad d voler chiudere questo caso senza indicare il mandante dell’assassinio. “La comunità internazionale non accetterà questa farsa“, ha twittato Hatice Cengiz. “Le autorità saudite hanno chiuso questo fascicolo senza che il mondo sappia la verità su chi è responsabile dell’omicidio di Jamal”.
Il giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi è scomparso nell’ottobre 2018 dopo essere entrato nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia. Riad inizialmente ha respinto qualsiasi accusa ma alla fine ha ammesso l’assassinio all’interno del consolato. La monarchia saudita ha sempre respinto con forza le accuse di aver avuto un ruolo nella morte di Khashoggi, affermando che l’omicidio sia stata opera di un’operazione canaglia.
Un’affermazione di comodo, una sfida alla comunità internazionale.
Pro memoria per gli “smemorati” di Bruxelles. E Roma
Ecco cosa è l’Arabia Saudita quanto a rispetto dei diritti umani. A darne conto è il Rapporto 2019-2020 di Amnesty International sui diritti umani nel mondo.
Le autorità saudite hanno intensificato la repressione dei diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Hanno vessato, detenuto arbitrariamente e perseguito penalmente decine di persone critiche nei confronti del governo, difensori dei diritti umani, compresi attivisti per i diritti delle donne, membri della minoranza sciita e familiari di attivisti. Sono proseguiti i processi davanti a un tribunale antiterrorismo contro attivisti sciiti ed esponenti religiosi, a causa del loro dissenso.
Le autorità hanno applicato in maniera estensiva la pena di morte, effettuando decine di esecuzioni per una vasta gamma di reati, anche in materia di droga. Alcune persone, in maggioranza membri della minoranza sciita del paese, sono state messe a morte al termine di procedimenti gravemente iniqui.
Sono state introdotte riforme di ampia portata al sistema repressivo del tutoraggio maschile, che hanno tra l’altro concesso alle donne di ottenere il passaporto, viaggiare senza il permesso di un tutore maschile e assumere il ruolo di capofamiglia; tuttavia, le donne hanno continuato a subire sistematiche discriminazioni nella legge e nella prassi in altre sfere della vita e a non essere adeguatamente protette dalla violenza sessuale e di altro tipo.
Le autorità hanno concesso a centinaia di migliaia di cittadini stranieri il diritto di lavorare e di accedere all’istruzione e all’assistenza sanitaria, ma hanno arrestato ed espulso centinaia di migliaia di lavoratori migranti irregolari, che erano a rischio di abusi e altre forme di sfruttamento da parte dei loro datori di lavoro e di tortura quando erano sotto la custodia dello stato.
La discriminazione nei confronti della minoranza sciita è rimasta radicata.
Nel 2019, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei migranti e il Relatore speciale sulla situazione dei difensori dei diritti umani hanno reiterato le loro precedenti richieste alle autorità saudite di poter visitare il paese, senza tuttavia ricevere alcuna risposta.
L’Arabia Saudita ha continuato a co-guidare la coalizione militare impegnata nel vicino Yemen, le cui forze sono implicate in crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale. A settembre, un attacco con droni lanciato contro gli impianti della compagnia petrolifera statale saudita Aramco, ad Abqaiq, nella provincia Orientale, rivendicato dagli huthi dello Yemen, ha praticamente dimezzato per varie settimane la produzione di greggio dell’Arabia Saudita.
Libertà d’espressione, associazione e riunione
Le autorità hanno intensificato la repressione sui diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione, rafforzando anche il giro di vite sulla libertà d’espressione online. Hanno vessato, detenuto arbitrariamente e perseguito penalmente persone critiche nei confronti del governo, difensori dei diritti umani, membri della minoranza sciita e familiari di attivisti.
Ad aprile 2019, le autorità hanno arbitrariamente arrestato 14 persone, per avere pacificamente appoggiato il movimento per i diritti delle donne e le attiviste per i diritti umani. Tra gli arrestati c’erano: Salah al-Haidar, figlio di Aziza alYousef, la quale rimaneva sotto processo a causa del suo impegno in difesa dei diritti delle donne; Abdullah al-Duhailan, giornalista, scrittore e fautore dei diritti dei palestinesi; e Fahad Abalkhail, il quale aveva appoggiato la campagna Women to Drive.
A fine 2019 erano ancora detenuti senza accusa né processo. Le autorità hanno continuato a processare persone davanti alla corte penale specializzata (Specialized Criminal Court – Scc), un tribunale antiterrorismo, per reati relativi alla pacifica espressione delle opinioni, che in alcuni casi prevedevano la pena di morte.
Difensori dei diritti umani
Le autorità hanno continuato ad arrestare, perseguire e incarcerare difensori dei diritti umani a causa delle loro pacifiche attività e del loro impegno in difesa dei diritti umani, applicando, tra le varie normative, la legislazione antiterrorismo e la legge sui reati informatici, che criminalizzavano la pubblicazione online di critiche verso le politiche e le prassi del governo, oltre che i commenti riguardanti le vicende d’attualità del paese. A fine 2019, praticamente tutti i difensori dei diritti umani dell’Arabia Saudita erano detenuti senza accusa o erano sotto processo o stavano scontando periodi di carcere.
Criticare il governo dall’estero
A settembre, in occasione del primo anniversario dell’esecuzione extragiudiziale di Jamal Khashoggi, il principe ereditario ha ammesso la sua piena responsabilità nell’uccisione, dichiarando: “È avvenuta sotto il mio controllo”. A dicembre, la pubblica accusa ha annunciato che otto persone sospettate di essere coinvolte nell’omicidio erano state giudicate colpevoli; cinque di loro sono state condannate a morte e tre a periodi di reclusione. Per tutta la durata del processo, le autorità hanno permesso a rappresentanti diplomatici di assistere alle udienze, iniziate a gennaio, vietando tuttavia la partecipazione di giornalisti e del pubblico in generale, senza peraltro fornire informazioni circa l’evolversi del procedimento e dunque impedendo un monitoraggio indipendente.
L’Arabia Saudita non ha provveduto a cooperare con un’inchiesta sull’omicidio condotta dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie. L’inchiesta ha concluso a giugno che Jamal Khashoggi era stato vittima di una deliberata e premeditata esecuzione extragiudiziale, della quale l’Arabia Saudita era responsabile. Il Relatore speciale ha rilevato “prove attendibili che rendevano necessarie ulteriori indagini in merito alla responsabilità individuale di alte cariche istituzionali saudite, compreso il principe ereditario“.
Il rapporto del Relatore ha inoltre documentato gli abusi commessi dalle autorità saudite o da attori non statali strettamente legati a esse contro altri dissidenti all’estero, come rapimenti, sparizioni forzate, minacce, vessazioni, sorveglianza elettronica, oltre a minacce psicologiche contro le famiglie di attivisti detenuti.
A novembre, due ex dipendenti di Twitter sono stati accusati dalla procura federale degli Usa di attività di spionaggio per conto dell’Arabia Saudita, per avere acquisito informazioni personali sui dissidenti iscritti alla piattaforma. Tra gli account violati c’era quello di Omar Abdulaziz, un noto dissidente saudita residente in Canada.
Pena di morte
I tribunali hanno emesso nuove condanne a morte per molte tipologie di reato e hanno autorizzato decine di esecuzioni; c’è stato un aumento delle esecuzioni per reati in materia di droga e di terrorismo. Le autorità non hanno generalmente garantito il rispetto degli standard internazionali di equità processuale né le tutele dovute agli imputati nei processi che prevedevano l’imposizione della pena di morte. Questi procedimenti si sono spesso svolti a porte chiuse e in maniera sommaria, senza assistenza o rappresentanza legale per gli imputati e senza servizi di traduzione per i cittadini stranieri nelle varie fasi della detenzione e del processo. Le sentenze capitali sono state regolarmente emesse sulla base di “confessioni” che gli imputati hanno riferito essere state loro estorte sotto tortura. Il 23 aprile 2019 sono state eseguite le condanne a morte di 37 cittadini sauditi, giudicati colpevoli in procedimenti giudiziari distinti, celebrati davanti all’Scc. Erano in maggioranza musulmani sciiti condannati al termine di processi gravemente iniqui, che si erano basati su “confessioni” macchiate da accuse di tortura.
Migranti schiavizzati
Le autorità hanno intanto proseguito il loro giro di vite sui migranti irregolari. Nel novembre scorso, il ministro dell’Interno ha annunciato che, nei precedenti due anni, circa 4,1 milioni di persone erano state arrestate e almeno un altro milione era stato espulso, nell’ambito di una campagna che intendeva colpire i migranti accusati di avere violato le norme e le leggi in materia di permesso di soggiorno, sicurezza delle frontiere e lavoro. Solo nel 2019, erano stati arrestati più di due milioni di lavoratori stranieri e altri 500.000 espulsi dal paese. Gli 11 milioni di lavoratori migranti residenti in Arabia Saudita hanno continuato a essere regolamentati dal sistema di lavoro tramite sponsor, conosciuto come kafala, che conferiva ai datori di lavoro ampi poteri su di loro. Questo sistema impediva di lasciare il paese o di trovare una nuova occupazione senza il permesso del datore di lavoro, rendendo così queste persone più vulnerabili allo sfruttamento e agli abusi sul luogo di lavoro. In molti casi, i lavoratori migranti hanno perso lo status giuridico nel paese, dopo che i datori di lavoro non avevano provveduto a rinnovare il loro permesso di soggiorno o in seguito a reclami che non erano stati loro notificati. Secondo un rapporto pubblicato da Human Rights Watch, lavoratori migranti di nazionalità etiope, detenuti per violazioni in materia di lavoro, erano stati torturati e altrimenti maltrattati nelle strutture di detenzione dislocate in varie parti del paese; i lavoratori migranti hanno affermato di essere stati percossi, di non avere ricevuto cibo o acqua e di essere rimasti incatenati l’un l’altro in celle sovraffollate. Secondo le notizie riportate, oltre 900 lavoratori domestici migranti di nazionalità bangladese sono stati rimpatriati dall’Arabia Saudita nel corso del 2019. Oltre un centinaio vivevano in un rifugio in Arabia Saudita, dopo avere denunciato che i loro datori di lavoro li avevano sottoposti ad abusi fisici, psicologici e sessuali. Altri hanno affermato di essere stati costretti a lavorare senza essere retribuiti.
Ma i petrodollari cancellano il sangue. E lavano la coscienza di chi fa ancora finta di non sapere cosa sia l’inferno saudita.
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