Ho parlato del 25 aprile e ora voglio parlare del 1 maggio: due feste strettamente collegate fra di loro, non soltanto per motivi di calendario ma anche perché ci ricordano due conquiste: la prima la conquista della libertà per tutti i cittadini e la seconda la conquista della dignità e dei diritti per i lavoratori. Non a caso l’articolo 1 delle nostra Costituzione, nata dalla Resistenza dice che “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.
Quando penso alla libertà, alla democrazia mi vengono in mente l’aria, l’acqua, la corrente elettrica, beni essenziali della cui esistenza e della cui importanza ci accorgiamo soltanto quando ci vengono a mancare. Per molti giovani che non sanno o non vogliono sapere ma anche per molti adulti che sono stati resi immemori da troppi anni di bieco consumismo, la libertà e la democrazia sono beni di cui non si avverte neppure più la presenza, per cui non si colgono più le connessioni storiche e morali e non sanno distinguere più fra coloro che si batterono, e morirono, per assicurare a loro stessi, ai loro figli e ai loro nipoti, questi beni fondamentali e coloro che invece li osteggiarono.
Io penso che ci voglia tanta pazienza e tanto lavoro, in tutti i settori e in ogni momento della vita per far prendere di nuovo coscienza di quelli che sono i valori fondanti del nostro consorzio civile, libertà e democrazia, che però senza giustizia sociale, come diceva Sandro Pertini, sono valori vuoti di significato.
Per un giovane che si affaccia nel mondo del lavoro è normale sapere che in quanto lavoratore ha dei doveri ma anche dei diritti codificati, nelle leggi, nello Statuto dei Lavoratori (che anni fa è stato modificato e chiamato Statuto dei Lavori, e non è la stessa cosa), nei contratti collettivi e quindi non sa, non vuole sapere e non pensa neppure che dietro questi diritti conquistati c’è tanto sudore, ci sono tante fatiche, ci sono tante lotte e persino tanto sangue. La stessa festa del Primo Maggio ricorda un terribile fatto di sangue nella Chicago di fine Ottocento. La festa del Primo Maggio oggi viene celebrata con naturalezza, come è giusto, ma non è stato sempre così. Il Primo Maggio fu per tanti anni, negli anni della dittatura ma anche del capitalismo più bieco, il sogno, il miraggio, la speranza di riscatto. “Vieni, o Maggio, ti aspettan le genti, dolce Pasqua dei lavoratori…” cantava il poeta anarchico Pietro Gori sull’aria del “Va pensiero” di Verdi. Ed erano gli anni in cui si lottava per poter lavorare soltanto otto ore al giorno (“Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar e proverete la differenza di lavorare e di comandar”), per proibire il lavoro notturno dei bambini (sì, proprio dei bambini) e delle donne, per rendere meno insalubre e più dignitoso il lavoro delle mondine, per creare le prime organizzazioni di solidarietà, in soccorso dei lavoratori malati e anziani e delle loro famiglie.
La storia è lunga e io la finisco qui, però voglio chiedere a chi mi legge: il Primo Maggio dedicatelo pure alla festa, alla famiglia, alla scampagnata e alle fave con il pecorino, però per un momento pensate a questa storia lunga più di un secolo, che ha portato i lavoratori dalla condizione di schiavi a protagonisti della vita civile.
Soprattutto ora che il lavoro è diventato non più un diritto ma un privilegio. Soprattutto ora che il lavoro è tornato ad essere merce che può essere comprata o lasciata o lasciata a marcire nei magazzini, che sono i grandi serbatoi della disoccupazione.
Soprattutto ora che i sindacati sembrano aver perso la loro identità. Soprattutto ora che a noi più vecchi torna prepotente alla memoria la forte faccia bruciata dal sole che sembrava scolpita nella pietra di Peppino Di Vittorio, il bracciante pugliese che dette tutto se stesso per la difesa dei lavoratori e per la loro unità.
Soprattutto ora che diventa sempre più struggente il ricordo di quando bambino andavo accompagnato da mio Padre al comizio oceanico di Di Vittorio, che precedeva sempre il gusto inconfondibile delle fave accompagnate con il pecorino romano. O delle vigilie passate a Castiglioni in Val d’Orcia quando si veniva svegliati nel cuore della notte dal canto dei maggiaioli, che portavano a tutti la lieta novella: maggio è ritornato, la natura, dopo il duro inverno, è risorta e promette ricchi raccolti. Sembra una metafora dell’Italia di cui tutti aspettiamo trepidanti la resurrezione portata dal più radioso Primo Maggio.
Inno del Primo Maggio
(sull’aria del “Va pensiero” del Nabucco di Verdi – Parole di Pietro Gori, il poeta anarchico che scrisse questo inno morente in ospedale “il veggente poeta che muor”)
“Vieni o Maggio t’aspettan le genti
ti salutano i liberi cuori
dolce Pasqua dei lavoratori
vieni e splendi alla gloria del sol
Squilli un inno di alate speranze
al gran verde che il frutto matura
a la vasta ideal fioritura
in cui freme il lucente avvenir
Disertate o falangi di schiavi
dai cantieri da l’arse officine
via dai campi su da le marine
tregua tregua all’eterno sudor!
Innalziamo le mani incallite
e sian fascio di forze fecondo
noi vogliamo redimere il mondo
dai tiranni de l’ozio e de l’or
Giovinezze dolori ideali
primavere dal fascino arcano
verde maggio del genere umano
date ai petti il coraggio e la fè
Date fiori ai ribelli caduti
collo sguardo rivolto all’aurora
al gagliardo che lotta e lavora
al veggente poeta che muor!”
Pietro Gori