di Alessia de Antoniis
È in libreria Figli di nessuno, scritto da Pasquale Guadagno insieme alla giornalista Francesca Barra, pubblicato da Rizzoli. Una delle tante storie di ordinaria follia di cui forse non ricordiamo nulla: il 25 aprile 2010 Salvatore Guadagno ha ucciso sua moglie, Carmela Cerillo, madre dei suoi due figli. L’ha strangolata per gelosia. Dopo 18 anni è di nuovo in libertà.
Nel libro, semplice e potente insieme, una frase come tante: “Sarai mia per sempre o non sarai di nessun altro”. Scambiata in genere per una dichiarazione d’amore, è una dichiarazione d’intenti. In realtà non c’è individuo più sincero di un “soggetto maltrattante”, di un violento, di un femminicida. Loro non sono sempre bugiardi, siamo noi ad essere troppo spesso “analfabete”.
Scrive Pasquale: “Sono figlio di nessuno, orfano di femminicidio”. Figlio di nessuno. Eppure è cresciuto con due genitori. “Sì, ma dopo il femminicidio di nostra madre io e mia sorella siamo stati abbandonati al nostro destino, senza un assistente sociale, uno psicologo, nessuno che ci tendesse una mano“. Inizia così la chiacchierata con Pasquale Guadagno. Nella mia mente la frase detta a Francesca Barra: “non puoi sapere come mi sento”. Un dubbio mi è rimasto: ma per sopravvivere a una tragedia simile, si ricorda davvero cosa si sente?
Perché questo libro? Avevi già scritto il memoir Ovunque tu sia
Per dare strumenti ai giovani e alle donne. A 14 anni non avevo gli strumenti per capire che la violenza familiare non è normale. Nel 2010 non si parlava di femminicidio come oggi. Oggi si deve sapere che anche un ragazzo può fare la differenza.
Essere una “vittima collaterale di crimine domestico” è una linguaggio che spersonalizza la sofferenza?
Si usano questi termini per dare l’impressione che lo Stato si prenda cura di noi, ma in realtà non fa nulla. Anche quest’anno i fondi per gli orfani di femminicidio sono stati ridotti: significa che non si comprende la gravità della situazione. Trovo molto triste che il destino di questi ragazzi, come quello delle donne, venga lasciato a chi prende a cuore un caso specifico.
Si parla più delle donne vittime di femminicidio che dei figli. Perché?
Forse perché una donna vittima di femminicidio fa notizia, ma poi nessuno deve prendersene cura. Gli orfani, invece, restano. E forse sono più scomodi da raccontare.
Delle vittime se ne parla in modo sensazionalistico, ma non viene mai approfondita la loro personalità, cosa hanno lasciato, che hobby avevano. Si parla sempre dell’uomo, dell’assassino che per tutti era bravo, era buono; si vanno a intervistare i vicini di casa, ci si chiede se si poteva evitare, ma non si parla mai veramente della donna.
È atroce che si parli oggi di un femminicidio che domani sarà già dimenticato. Siamo così abituati a sentirne parlare che lo abbiamo normalizzato.
Mio padre, il demone, agli occhi degli altri era perfetto, perfetto agli occhi dei miei amici, tra i colleghi di lavoro … – Com’è essere il figlio di un padre perfetto agli occhi degli altri?
Ci fai l’abitudine. Non provavo rabbia perché fuori era perfetto e in casa un demone. Sono cresciuto in quell’ambiente. Un padre violento che imponeva il suo potere, per me era la normalità. Crescendo ho capito che non è così e ho scardinato gli schemi imposti dalla mia famiglia.
Negare, negare sempre, ignorare, guardare dall’altra parte, tapparsi le orecchie per non sentire: questo avevo imparato, da bambino – Ti sei mai sentito impotente?
No. E forse è stata la mia salvezza. Non ho mai pensato “avrei potuto fare qualcosa”. Non mi sono mai neanche sentito in colpa. Ho sempre avuto la lucidità di sapere che io non avrei potuto cambiare la sorte di mia mamma; come non lo avrebbe potuto fare mia sorella. Quando ho toccato il fondo, con la depressione, ho chiesto aiuto e, grazie alla terapia, ho capito che il problema era mio padre.
Staccarti dal tuo passato era necessario per sopravvivere?
Sì. Per dieci anni, inconsciamente, la mia mente ha scelto di non soffrire; ho cercato di distaccarmi totalmente dalla mia storia. Poi la depressione mi ha riportato lì. È stato il periodo più brutto, ma anche il più bello, perché mi ha permesso di guardarmi dentro e ripartire.
Quali ricordi proteggi di tua madre?
Era generosa, pensava più agli altri che a se stessa. Amava il caffè e la pulizia, da buona napoletana. La domenica mattina apriva le finestre, metteva musica napoletana a tutto volume e iniziava a pulire. Era una grande cuoca: la passione per la cucina l’abbiamo ereditata io e mia sorella.
Su mia sorella dicevano «è successo alla mamma, succederà anche a lei». Io sembravo destinato a essere un mostro, mia sorella vittima – Tua madre è stata uccisa dal marito come tua nonna. Sembra un karma familiare…
Io sono gay e mia sorella è lesbica: io ho un compagno e lei è una compagna. Percepisco profondamente che noi dovevamo spezzare questo lato karmico della nostra famiglia e sento che con noi qualcosa è stato trasformato.
Il karma può ripetersi anche tra due donne o due uomini…
Sì, ma io e mia sorella abbiamo avuto la forza di guardarci dentro, nonostante l’enorme dolore, e scardinare quel karma. Quando cresci in una famiglia violenta, la violenza la respiri. Fa parte di te, fa parte di me. Non nego che a volte divento irascibile: ci sono degli atteggiamenti che mi riportano al mondo in cui sono cresciuto: la differenza sta nel momento in cui capisco, accolgo quello stato d’animo travolgente e lo incanalo positivamente. È qui la differenza con nostro padre: per lui era giusto così. È convinto di aver fatto bene ad uccidere nostra madre, di essere perfetto. Noi invece ci mettiamo in discussione.
Mia mamma non ha mai avuto giustizia, né in vita, né quando è morta. Per quel piccolo mondo, il nostro, quella sbagliata era lei – Il perdono non cambia quello che è stato fatto. Tu come vivi il perdono?
Vivo il perdono come qualcosa di personale. Non provo odio per mio padre, ma non lo faccio per lui, lo faccio per me, perché ho capito che l’odio non mi permetteva di andare avanti con la mia vita. Non si può perdonare un gesto del genere, ma si può comprendere cosa è successo e non ripeterlo. Durante la depressione, prima di iniziare la psicoterapia, ho avuto pensieri autolesionisti. Ed è lì che ho cercato di entrare nella testa di mio padre e dire, cavolo, ma se io ho fatto dei pensieri orrendi in un momento di non lucidità, probabilmente è quello che è successo a lui.
Rileggere gli atti giudiziari per scrivere il libro, è stato doloroso?
Molto. Ma era necessario per chiudere un capitolo e iniziare la mia vita come Pasquale Guadagno e non Pasquale Guadagno orfano di femminicidio. Per questo ho voluto scrivere questo libro. Se non fosse stato per il mio compagno probabilmente non sarei riuscito a terminarlo. Il momento della lettura degli atti, per capire com’è stata raccontata la vicenda, è stato doloroso. Quest’estate ho vissuto dei momenti di distacco dalla vita reale. Mi sono chiuso in me e nel mio dolore. Ma penso sia stata la chiave per il successo di questo libro, perché non hai filtri.
Qual è il tuo rapporto con le istituzioni?
Vorrei essere ascoltato. Chi più di una vittima può segnalare ciò che non funziona? Due anni fa volevamo cremare nostra madre, ma la legge dava i diritti sulla salma a mio padre. Giorni fa questa legge è cambiata, così i figli che rimangono non subiranno un’ulteriore ingiustizia. Perché questo è stato per noi: un’ingiustizia.
Erano le sue punizioni. (…) “Non devo urlare, altrimenti arriveranno le botte” pensavo. “Se piango, mi rimetterà alla prova. Se non piango, però, mi metterà alla prova con ostacoli maggiori. Non ho vie di uscita, ma ho solo sette anni. – Quando tuo padre era in permesso “premio”, tornava a casa accolto come una vittima dai familiari e mangiavate tutti insieme. Come fai a mangiare con tuo padre dopo che ha ucciso tua madre?
Dopo un po’ diventa normalità. Non ti chiedi se è giusto o sbagliato: ti fai guidare dalla tua famiglia perché pensi che lì sia la sicurezza. Ero obbligato ad andare in carcere a trovarlo, quindi avevo continuato a vederlo. Verso i 17 anni mi sono ribellato, ho detto basta, sono andato a vivere con mia sorella e da lì è iniziata poi la mia vita.
È importante sentire i figli in sede di giudizio?
Sì. In sede di giudizio e in generale.
Mi resta una certezza: non voglio avere lottato una vita intera e morire per niente – Parlare ai ragazzi è il tuo modo per dare un senso a tutto questo?
Sì. Quando racconto la mia storia nelle scuole e un ragazzo mi scrive su Instagram dicendo che suo padre è violento e non lo ha mai detto a nessuno, so di aver fatto la differenza. La mia fortuna è essere giovane: parlo il loro stesso linguaggio. Uno psicologo, un avvocato, non arrivano nello stesso modo.
Qual è il messaggio più importante che vuoi trasmettere?
Che una vittima, di qualsiasi tipo, ha diritto alla felicità. Nessuno si aspetta che una vittima possa sorridere, viaggiare, inseguire i propri sogni, ricostruirsi una vita. Io invece lotto per questo: la mia storia rimane dentro di me, ma non mi definisce. Ora voglio fare qualcosa di grande.