di Alessia de Antoniis
Signori, chi è di scena? Dopo quattro anni dal debutto arriva al Vascello di Roma – dall’11 al 16 marzo – l’epica potente di Moby Dick alla prova di Orson Welles per la regia di Elio De Capitani. Una produzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.
Un incipit alla Rumori fuori scena getta lo spettatore nel mezzo di una prova teatrale. Avrebbe dovuto essere il Lear, invece sarà Moby Dick.
Un’apertura divertente che termina con un De Capitani capocomico che, rompendo la quarta parete, si rivolge direttamente al pubblico. Peccato che quello romano della prima non risponda neanche al semplice buona sera. Ma l’esperienza del grande attore e regista si manifesta immediatamente, trasformando una defaillance in teatro.
Una decina di minuti immersi nelle frasi del bardo, compreso l’appello rivolto al pubblico, al quale si chiede di immaginare ciò che non c’è e non può esserci. “Rimediate coi vostri pensieri alle nostre imperfezioni”. Gli attori devono trasformarsi nei personaggi del romanzo e il pubblico è chiamato a immaginare gli scenari oceanici che non vedrà mai. Non ci sono pontili, remi, porti, oceani, capodogli.
Ma il genio di De Capitani, grazie anche all’ottimo disegno luci, costruisce scenografie cinematografiche che gettano il pubblico in mare aperto, soggiogato dalla tempesta; con vele che tremano sotto la furia del vento, frustano l’aria con colpi secchi. Tutto con un semplice telo che invade il palco cambiando colore. Grazie anche alla colonna sonora dal vivo di Mario Arcari, siamo tutti sulla Pequod che lotta contro muri d’acqua sballottata come un guscio di noce, mentre le onde tentano di divorare la nave e le vele sibilano attraversate dalle raffiche. E siamo ancora sulla Pequod quando il grande cetaceo bianco attacca. Affondiamo anche noi.
Ed è sempre Mario Arcari, dal palco, a dettare i ritmi dell’affiatato cast: Cristina Crippa, Angelo Di Genio (Ishmael – nella sua recitazione si intravede la stessa intensità, la stessa arte del suo “capitano”), Marco Bonadei (Starbuck), Enzo Curcurù (Stubb), Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana (prima Cordelia poi Pip – brava anche come cantante), Vincenzo Zampa.
Un cast che si muove con una precisione impeccabile, dove ogni attore è un ingranaggio all’interno di un meccanismo teatrale senza sbavature. Le battute scorrono con naturalezza, gli sguardi si incrociano al momento giusto, i movimenti si incastrano in un fluire armonioso, come le ruote dentate di un orologio in perfetta sincronia. Ognuno ha il proprio ruolo, in un equilibrio che trasforma lo spettacolo in un organismo vivente, pulsante di ritmo e precisione.
È Mario Arcari a creare ogni suono, verso marino, lo stridio acuto e rauco dei gabbiani; a sottolineare stati d’animo. È lui che suona per i marinai, mentre i sea shanties rimbombano sul palco come il battito instancabile del mare, intrecciando le voci degli attori in un coro potente che scandisce il ritmo del viaggio, unendo l’equipaggio nella fatica e nell’ardore della caccia alla grande balena.
Sul palco, tra scale alte fino alla graticcia e tavoli di metallo con le ruote, una ciurma indemoniata svolge le funzioni del corpo di ballo di un musical di Broadway e del coro della tragedia greca. Quella dell’Elfo è una compagnia capace di un grande lavoro corale e, al contempo, di restituirci personalità forti e delineate
È divino De Capitani in cima a una scala, palco buio, solo una luce su di lui, nel monologo di Padre Mapple: un esempio di (ormai raro) grande teatro.
Non importa se è Moby Dick e Re Lear : quello che va in scena è una riflessione sulla follia, il potere, il destino e l’insensatezza della condizione umana. Una metafora del mondo. Un viaggio di sola andata verso l’annientamento, con protagonisti che cercano di sfidare l’inevitabile, solo per essere schiacciati da forze più grandi di loro. Achab o Lear poco importa: si racconta di figure di potere che si autodistruggono per la loro ostinazione, consumate dalla loro avidità.
E dopo più di due ore e mezza, forse troppe, la scena si ferma. Sono tutti morti. “Potete chiudere il sipario”. È la voce del regista: era la messinscena di una messinscena.
All’inizio, quando De Capitani aveva rotto la quarta parete, aveva apostrofato il pubblico: “Di che cosa ha bisogno l’attore? Di niente. Come di niente? Del pubblico!”. Alla prima romana gli spettatori in sala hanno, alla fine, applaudito. Ma quel pubblico di cui gli attori avevano bisogno, non si è particolarmente sentito. Chissà, forse se il secondo atto fosse stato più breve…