di Alessia de Antoniis
“Tutta colpa del colonialismo!”. Va bene, ma quale colonialismo? Noi vecchie generazioni avevamo qualche paginetta sul libro di storia, che parlava della campagna d’Africa perché Mussolini voleva l’impero; voleva competere con inglesi e francesi. Ma, a differenza di questi, beceri sfruttatori, noi avevamo portato civiltà, lasciato strade e scuole. E poi, che avremo fatto mai in quei pochi anni? Noi siamo italiani brava gente, non siamo come loro. Massaua l’abbiamo costruita noi! Le nuove generazioni, poi, forse neanche sanno che abbiamo avuto un re, Vittorio Emanuele III, Imperatore d’Etiopia; che esisteva l’AOI, l’Africa Orientale Italiana, comprendente Etiopia, Eritrea e Somalia. E poi noi abbiamo preso solo quello che restava.
Acqua di colonia – Testo, regia e interpretazione di Elvira Frosini e Daniele Timpano – che replica al teatro Basilica di Roma fino al 23 febbraio, è un testo che, se fosse una versione di latino, si intitolerebbe “Sull’ipocrisia”. Uno spettacolo ricco di informazioni, utilissimo per colmare le lacune che la nostra scuola ci ha lasciato e che dovrebbe andare in tutte le scuole. Perché tutti dovrebbero sapere cosa abbiamo fatto – i nostri nonni e bisnonni, noi non c’eravamo – in Africa. Africa: un continente davvero nero, senza confini interni, città, fiumi, etnie, lingue, tradizioni, usi, costumi. L’Africa. Un continente vuoto.
Acqua di colonia è uno spettacolo utile soprattutto per gli altri, loro, quelli che non leggono, non studiano. Non per me. Io dei gas usati dagli italiani lo so dal liceo. Degli stupri di massa, dei saccheggi.
Al centro del palco, Yonas Aregay (ma ogni sera c’è una persona diversa): nero, ascolta muto, seduto in mezzo alla scena, la storia che i suoi padri hanno subito. La storia di un’illusione, come la definì Montanelli in un’intervista. Fu un’illusione? Certo che lo fu. Ma io non mi vergogno di averla, a vent’anni, condivisa.(…) Vissi quell’avventura storicamente sbagliata – ma di questo mi accorsi dopo – (…) al comando di una banda di soldati indigeni, gli ascari, (…) in una terra senza strade, né carte topografiche, né mezzi di comunicazione.
Montanelli, il grande giornalista con la moglie negretta di dodici anni – non c’è violenza: in Abissinia sono così – lasciata al suo rientro a uno accusato poi di crimini di guerra, me lo ritrovo seduto su una sedia a gambe accavallate – un bravissimo Timpano – , che mi racconta, benevolo, la sua Africa. Che è anche la mia Africa. Quella che è cresciuta con me nei racconti dei miei nonni, della mia televisione. Un’Africa da giardino zoologico: animali, esseri umani, tutto mischiato insieme. Quell’Africa che abbiamo scoperto – Scoperta? Ma se veniamo da lì… – La mia Africa, quella della Blixen, con quel romantico colonialismo incarnato da una strepitosa Maryl Streep – com’è commovente quando toglie i guanti bianchi al domestico nero.
È tutta colpa del colonialismo, quando eravamo noi a rompergli il cazzo. Noi europei. Tutta colpa del colonialismo. – E li dobbiamo scontare tutti adesso? Al bar mentre facciamo l’aperitivo? – Questi, poveracci che colpe hanno? Sono in fuga dalla fame, dalle guerre civili, tragedie, naufragi, viaggi nel deserto… – Cazzi loro. Non c’eravamo. Adesso che c’entriamo?
Non sono intelligenti come noi, l’ha detto pure il barista sotto casa. I negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità. – Sempre il barista sotto casa? – No, questo è Kant. E poi sono ingovernabili. Moriranno sempre di fame. Sempre. Sono destinati. Se qualcuno non li governa, non ce la faranno mai – Anche questo è Kant? – No, mia cugina. Si cerca di addomesticarli e addestrarli. È ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanizzazione dei selvaggi – Tua cugina? – No, Benedetto Croce.
Sì, è anche questa la mia Africa. Quella che il potentissimo testo della coppia formata da Elvira Frosini e Daniele Timpano, mi rammenta. Mi fanno ridere, mi riportano alla mia infanzia, allo sketch di Gianni Agus e UgoTognazzi – chi non ha mai preso in prestito le parole del tormentone bittore, bittore, ti voglio barlare; non sono che un bovero negro e di un favore di brego – alla pubblicità delle caramelle Tabù, a Topolino in Abissinia.
In scena Daniele ed Elvira hanno ritmo, sono bilanciati, alternano battute e tristi verità; fanno addentrare il pubblico nella storia. Ma sono ingannevoli. Lo tranquillizzano riempiendolo di informazioni dotte, trattati storici come quello sulla difesa della razza del ’37, e poi il razzismo dotto di Rousseau, Aristotele, Marinetti. Concordo su tutto. Concordo anche su quella grande operazione di propaganda che fu L’Aida. E poi: cantiamo Faccetta nera!… e chi non la conosce? Chi non batte il ritmo col piede? Nessuno canta e neanche io. Certo che la so. Ma nessuno canta. Non sarebbe corretto. Ma nella mia testa quella musica continua a risuonare come una canzonetta di Sanremo.
E poi Amedeo Nazzari in Bengasi – mia nonna lo adorava e me li ha fatti vedere tutti – E le canzoni come Tripoli bel suol d’amore, del lontano 1911, ma cantata anche da Claudio Villa e Patty Pravo. Hanno il sapore di un’Italia felice che non c’è più. E si ride con Acqua di Colonia, si ride. Con i monologhi di Timpano, concitati, ritmati, pieni di nomi e date. Ricorda tutto, lui.
Ma nel frattempo l’ironia della coppia affonda la lama nella coscienza anestetizzata da un politically correct che pianta le sue radici negli anni in cui in Italia si parlava rigorosamente in italiano. Mentre scopri che ti sono familiari frasi prese da guide – di cui ignoravi anche l’esistenza – pubblicate già negli anni Trenta da case editrici legate al regime fascista, che avevano lo scopo di fornire informazioni pratiche e propagandistiche sull’Africa Orientale Italiana (la famosa e sconosciuta AOI) e sottolineare la “missione civilizzatrice” del regime. E tu continui a ridere.
Timpano e Frosini ti lasciano scivolare sul falso piano dell’ironia e poi ti gridano: fate le leggi razziali perché non volete mischià la razza ariana? Ma ve siete visti? E poi ti scovano lì, nella tua confort zone, accendono un riflettore sul tuo ipocrita senso di colpa; deridono quella maschera di saccenteria alla Pasolini che amiamo indossare. Ma noi non siamo portatori sani di fascismo. Giammai! E allora perché farcelo notare?
Un dubbio resta dopo questa ottima prova attoriale della coppia Timpano/Frosini: fuori da quella meravigliosa zona protetta che è il teatro, dove il politicamente corretto si può lasciare alle commedie per amanti della tv, e dove l’ironia può ancora essere capita e apprezzata e non sostituita dal più gretto sarcasmo; in quel mondo dove il bambino malato “di colore” è ancora un grande strumento di raccolta fondi, dove Mattei – quello dell’Eni del secolo scorso – dà il nome al nuovo piano di sfruttamento dell’Africa, il senso di colpa di cui si parla per tutto lo spettacolo, è per i danni del colonialismo, anche nostro, o per quello strisciante senso di colpa cattolico che si trasforma in perbenismo? Perché balliamo i Watussi e non cantiamo Faccetta nera? Non stavamo ridendo tutti insieme? …Sì, se Acqua di colonia fosse una versione di latino, si intitolerebbe “Sull’ipocrisia”.