di Alessia de Antoniis
Attore, regista, conduttore televisivo (A Casa Cucina Papà, Green Table e Liguria a Tavola), esperto di gastronomia, scrittore, clarinettista, Vittorio Vaccaro è soprattutto lo chef del suo ristorante Bettola Siciliana. Dal 25 febbraio torna su Food Network con il nuovo programma tv Gusti d’Italia.
È in libreria con La cucina è il teatro della vita, per Giraldi Editore. Un po’ Ratatouille, un po’ Julia&Julie, il libro di Vittorio nasce da odori, sapori, da quelle emozioni che ci trascinano lontano nel tempo e nello spazio.
Ma da quando partono i ricordi di Vittorio legati al cibo?
Ho sempre questo ricordo, di quando i miei genitori facevano pasticceria nel loro bar. Ricordo il profumo di un formaggio, dal sentore di brie col pepe verde. Era buonissimo! Non sono mai riuscito a ritrovarlo. Una volta, a Praga, ne trovai uno simile.
Quale piatto rappresenta la tua infanzia?
La pasta incaciata. Tornavo da scuola affamato e la trovavo. Ancora oggi, quando torno in Sicilia, a mia madre dico: mi fai la pasta incaciata?
Con un velo di malinconia scrivi: Proprio lì, dormendo su due sedie con indosso il cappotto, ho respirato ogni aroma, ogni profumo. Ho inconsciamente registrato i gesti abili delle mani di papà che per la cucina aveva un talento innato. Quanto di quei pomeriggi, di quelle sere passate in trattoria, con la gente che ti passava davanti, i sapori, gli odori, i suoni, è finito nel tuo teatro e nella tua vita da chef?
Molto. Ricordo i miei amici che andavano a casa e guardavano Bim, bum, bam su Italia 1; i gradini davanti al bar, dove stavo seduto; quella sensazione di attesa che il tempo passasse per poter andare a casa. La sera… ma non la sera alle otto: la sera a mezzanotte; nei weekend anche all’una. La malinconia al pensiero dei miei amici nelle loro case, al caldo, un po’ me la sono sempre portata dietro. Anche quando interpreti Amleto, quell’Amleto ha dentro di sé la persona che lo interpreta, le esperienze dell’attore, la sua necessità di raccontarsi.
Il cibo per me ha la stessa funzione: è conforto, è unione della famiglia, è memoria. Mi piace ricordare le domeniche con i miei nonni, quando la domenica si andava tutti insieme da nonna Angelina, che faceva sempre le stesse cose, come pasta con pomodoro e piselli. E anche se i nonni non ci sono più, restano quei gusti, quei sapori, quei profumi, che ti riportano nel passato. Il potere del cibo è potentissimo.
Cucinare, per me, è qualcosa che si ripete, come quando in teatro cerchi di ricreare la stessa dinamica. Con il cibo cerchi di ricreare un’atmosfera, diversa a seconda che ospiti una ragazza, la famiglia, gli amici. E il punto di partenza è il menù.
Oggi c’è chi chiama un cuoco o un catering…
Ho intervistato uno chef e gli ho chiesto: cosa ti dà più fastidio? E lui ha risposto: “quando mi invitano a casa e ordinano la pizza; allora andiamo in pizzeria”. Apprezzo di più se mi cucini una pasta col pomodoro, anche fatta male, ma mi stai accogliendo, ti stai prendendo cura di me”.
Siciliano, vieni da una terra passionale e ti innamori del sushi…
Il sushi è una cucina che lavora sull’essenziale e sulla qualità della materia prima: è una cucina rituale. Noi conosciamo la cucina giapponese stereotipata, ma poi c’è il mondo delle zuppe: tutti i brodi sono rituali. Per fare il nostro fondo di carne ci vogliono almeno 48 ore. La cucina giapponese non ha solo i nigiri. Gli uramaki non esistono nemmeno, sono occidentali. I nigiri sono il cibo della festa. Quello che mi piace della cucina giapponese è la sua filosofia minimalista.
Scrivi: Credo che la tavola possa rivelarci tanto delle persone, i punti di forza, il carattere, le debolezze, la personalità, il carisma, la generosità, la curiosità, il coraggio. La tua tavola cosa dice di te?
Che sono un curioso. A tavola mi piace gustare, capire, godere, stare lì. In Marocco siamo andati a mangiare da una nota chef. Ha preparato un tajine. Ho impiegato due ore a mangiarlo: avrei voluto non finisse mai. Quando un cibo mi piace, sto lì, mi godo il momento. Vorrei fare un viaggio da solo, perché per me viaggiare è come andare al cinema o al teatro: quando vai da solo nessuno ti fa domande.
La tavola racconta tantissimo delle persone: come parlano, come si muovono, come mangiano, se sono schizzinose, se non sono curiose, se hanno dei pregiudizi. E poi vedi che sono così anche nella vita quotidiana. Anche a letto: vedi se sono curiosi, profondi, se sanno godersi gli attimi, se preferiscono non arrivare subito al dunque. Lo capisci anche da come sorseggiano un bicchiere di vino, se sono frettolosi, se ci mettono l’acqua.
In A casa cucina papà, su Food Network, proponi ricette semplici per i tipici pasti in famiglia. Sei consapevole del fatto che pochi realizzano le ricette viste in tv?
Sono trasmissioni che tengono compagnia. In Liguria a tavola parlo anche di territorio, di materie prime. Ma sono format di compagnia: cosa fare in Liguria nel weekend, il racconto di una ricetta, ma anche di un luogo; una guida alla scoperta di prodotti che magari lo spettatore non conosce: salumi, formaggi, paste, prodotti tipici del territorio.
Nella cucina quotidiana, quanto contano gli ingredienti? Benedetta Rossi è stata attaccata perché cucina col tonno in scatola…
Fanno tutti i fighi, ma poi a casa non è che vai a pescare il tonno. In dispensa hai il Rio mare e sei contenta di fare qualcosa di gustoso con quello che hai.
Sei papà e cucini in televisione. Altri papà sono testimonial per detersivi. Tra politica, social e marketing, sembra si portino in scena Italie diverse…
Sono le famiglie della vita reale, quella di tutti i giorni. Il ruolo del padre è cambiato e sta cambiando. Nelle pubblicità viene fuori l’Italia vera, quella dei padri al supermercato, all’uscita di scuola; dei padri separati, delle famiglie allargate. Quando hai tua figlia con te, non le cucini? Non le fai la lavatrice?
La società viaggia sui suoi binari. È come – e tocco un altro argomento sensibile – l’omosessualità. Non esiste perché la racconti per forza in ogni film. Non è che racconti a tutti che sei un padre separato e fai la lavatrice. La gente va avanti con la sua vita senza evidenziare sempre tutto. È la quotidianità. Sottolineare certi aspetti della vita quotidiana fa leva su una parte della società e serve a creare movimenti che fanno gioco alla politica. Le diversità esistono per chi ha interesse a farle esistere.
Nel libro parli dei padri separati da una diversa angolazione…
Molti padri hanno problemi economici dopo la separazione, un aspetto messo in ombra dalla maggiore attenzione rivolta alle difficoltà delle donne. L’uomo che divorzia è spesso visto negativamente, mentre la donna viene percepita in modo più positivo. Questa disparità di giudizio rende difficile per gli uomini affrontare la separazione. Molti padri perdono la casa, dovendo affrontare spese elevate come gli alimenti per i figli, che possono portare a situazioni di grave indigenza. Non si parla mai delle violenze sugli uomini, che si vergognano a denunciare. L’appello è per una maggiore parità dei sessi nel trattamento delle separazioni, riconoscendo che anche gli uomini soffrono e affrontano difficoltà significative.
Giovani che vogliono fare gli chef per soldi, fama e sponsorizzare un fast food. Quale insidia si nasconde dietro a questo racconto che spinge verso l’alberghiero?
Magari in scuole dove ci sono grandi maestri e ti costano 50mila euro… Ormai è tutto un format. Masterchef ci ha raccontato il lato bello del mondo della ristorazione. Non ci sono più solo i calciatori. Oggi vai in un ristorante perché il proprietario sta in televisione, ti fai fare una dedica, ti posti su un social e ti metti in mostra. Poi però non trovi personale: se cerchi qualcuno per la cucina, non hai un italiano che si presenti. Si vuole fare lo chef per diventare famoso, ma il mondo reale non è quello. Il nostro lavoro è artigianato puro: devi faticare, sporcarti le mani, lavorare quando gli altri si divertono, come Natale e le feste comandate, avere orari diversi. Questa è la vera narrazione. La gente non vuole questo, ma andare su Instagram e diventare virale.
Quindi non è solo un problema di “sottopaghe”…
Non a Milano. Forse al Sud, e lo posso dire perché vengo dal Sud. Entra nelle cucine e guarda quanti italiani ci lavorano. La sottopaga ce l’hai dove ci sono dipendenti in nero. Quando offri paghe da 2500, 3000 euro, perché non trovi dipendenti? Da contratto devono fare 8 ore. Se ne fanno di più sono straordinari. Ci sono i sindacati. A Milano non si lavora in nero. Non si può fare di ogni erba un fascio. Al mare o in montagna non trovi chi fa le stagioni. Il problema è che c’è sempre meno gente disposta a fare sacrifici. Poi vai sui social e ci sono ventenni che si fanno i selfie in locali da migliaia di euro per una serata. Ovvio che nessuno vuole faticare, ma quella sui social non è la vita reale.
A Milano hai aperto Bettola Siciliana mentre lo chef stellato Lo Basso chiude perché Milano è un far west: va in Svizzera…
Giorni fa, dopo la chiusura di Bettola, salgo in macchina e scopro che mi hanno rubato il volante. Accade. Milano è una bellissima città, ricca di cultura, dove puoi dire e fare qualunque cosa. Poi ha le criticità di tutte le città.
Milano è una città dove si spende tanto per andare in locali alla moda, stappare champagne e ballare sui tavoli. Lo Basso fa fatica, ma lui parla di un contesto molto particolare: quello degli stellati. Però: un menù degustazione costa circa 240 euro. Aggiungi il vino, il servizio, magari un alcolico. Alla fine quella cena per due ti è costata 7/800 euro. Quanti se lo possono permettere? E di stellati ne spuntano come i funghi. È una situazione che sta diventando ridicola. E, se devo andare da uno stellato, vado da Cannavacciuolo o da Oldani. La gente sta tornando a cercare cibo buono in posti dove ci si senta a proprio agio, non da chi fa esercizio di stile. Poi, chi non ama Milano può andarsene in Svizzera.