"Ugo" di Carla Vistarini: un successo evergreen all'Off/Off Theatre
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"Ugo" di Carla Vistarini: un successo evergreen all'Off/Off Theatre

Intervista all'unica direttrice artistica donna del Festival di Sanremo, autrice di canzoni che hanno fatto la storia della musica italiana

Carla Vistarini e Ugo - intervista di Alessia de Antoniis
Carla Vistarini e Ugo
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18 Febbraio 2025 - 14.10


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di Alessia de Antoniis

Ugo, l’intramontabile successo di Carla Vistarini, torna in scena all’Off/Off Theatre di Roma sabato 22 e domenica 23 febbraio 2025, con Ivan Raganato, Maria Antonietta Vacca e Alisia Mariano.

Carla Vistarini, paroliera, sceneggiatrice e scrittrice italiana, ha vinto un David di Donatello per il film Nemici d’Infanzia; ha scritto più di 300 canzoni per artisti come Mina (Buonanotte Buonanotte), Ornella Vanoni, Mia Martini, Patty Pravo, Alice, Gigi Proietti, Peppino Di Capri, Massimo Ranieri, Raffaella Carrà, Sylvie Vartan, Loretta Goggi, Amedeo Minghi, e Renato Zero.

Se fosse un uomo, come Mogol, anche l’ultimo dei profani conoscerebbe il suo nome. In tanti cantano le sue canzoni, ma nessuno sa che è stata l’unica donna direttrice artistica del Festival di Sanremo, nel 1997 insieme a Pino Donaggio e Giorgio Moroder

“Ugo” è la sua drammaturgia più rappresentata, scelta da attori come Alessandro Haber, Michele La Ginestra e Biagio Izzo. “Ancora oggi ricevo richieste per metterlo in scena in Italia e all’estero” – dice orgogliosa Carla Vistarini.

Ricorda come è nato “Ugo”?

“Ugo” è nato dopo che avevo già scritto molte canzoni e lavorato in televisione e teatro. Avevo scritto per Proietti, Loretta Goggi, Massimo Ranieri, e per la versione italiana di “Stanno suonando la nostra canzone” con Gigi e Loretta.

Ero in macchina e ho avuto una folgorazione: raccontare la rottura improvvisa di una normalità, l’arrivo di un elemento dirompente in una vita tranquilla. Mi sono chiesta: cosa potrebbe rappresentare al meglio questa idea? E ho pensato a un gorilla. Il gorilla è profondamente umano, ma conserva la sua natura istintiva e selvaggia. Da lì è nato Ugo, un personaggio capace di smuovere le cose, mettere in evidenza contrasti, mostrare il bello e il brutto di una situazione apparentemente statica.

“Ugo” è del 1988 e continua ad avere successo…

Credo che la sua forza sia nella sua universalità. Non è legato a un’epoca specifica, è un testo che può essere sempre attuale.

L’ho visto a Praga, in un teatro enorme con mille spettatori. Non capivo la lingua, ma vedevo il pubblico ridere e commuoversi negli stessi momenti delle rappresentazioni italiane. Questo dimostra che il teatro può essere un linguaggio universale, in grado di trasmettere emozioni a prescindere dalla lingua.

Ha riscontrato più arricchimenti o tradimenti?

Chi scrive drammaturgia sa che verrà tradita. Da capocomico o da attore, lo avrei fatto diverso. Ma ogni volta ho capito quante altre chiavi di lettura ci possono essere.

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E quando scrive canzoni a cosa pensa? Ha già in mente il cantante? La nevicata del ‘56 doveva essere cantata da Gabriella Ferri, ma poi fu Mia Martini a farla diventare un classico.

Io ho sempre scritto prima la canzone, senza mai pensare a chi l’avrebbe cantata. Ho sempre scritto sulla musica e non prima il testo e poi la musica. Una volta finita la canzone, pensavamo a chi potesse cantarla e si partiva alla ricerca dell’artista attraverso le case discografiche. L’iter poteva essere lungo. Nel caso di La voglia di sognare, invece, la RCA l’ha mandata subito a Ornella Vanoni e nel giro di pochissimo la canzone è diventata un suo enorme successo.

Con La nevicata del 56 è stato diverso. Parlava di Roma e pensavamo a Gabriella Ferri. Lei ne fu entusiasta, la voleva incidere e poi, come spesso avviene nella storia della musica, all’ultimo momento non l’ha fatta. Per noi fu un grande dispiacere e l’abbiamo messa in un cassetto. Non l’ho mai più fatta sentire a nessuno per quasi dieci anni. La delusione di stare a un passo dall’incidere il singolo con Gabriella Ferri e improvvisamente più nulla, fu uno shock… ero giovane, avevo venticinque anni… Molti anni dopo Mia Martini cercava una canzone e abbiamo pensato che forse poteva essere lei la persona giusta.

Open l’altro giorno titolava: “Carlo Conti ci riprova: «Per Sanremo ci vorrebbe una direttrice artistica donna». Perché da 75 anni le canzoni del Festival le scelgono sempre gli uomini?” Da Mentana non sanno che c’è stata una direttrice artistica ed è stata lei?

Credo il punto non sia nel non sapere che io sia stata l’unica direttrice artistica del festival di Sanremo, ma nella disinformazione, nella disattenzione, nei confronti di certe conquiste femminili. Sono stata autrice per varie edizioni di Sanremo, autore unico del Pavarotti & Friends per molte edizioni, per programmi che hanno fatto la storia della televisione. Noi donne abbiamo grandi capacità, siamo in molti settori, ma ci portiamo dietro il bisogno di dover sempre dimostrare qualcosa.

Oggi a Sanremo si parte dal cantante, non dalla canzone. Se Sanremo racconta la musica italiana, cosa ci sta dicendo?

Il mondo discografico era fatto di conoscenze, di scambi di idee, di amicizie, di contatti fisici. Le canzoni le scrivevamo insieme, in una stanza con il pianoforte, si andava dalle case discografiche e si faceva ascoltare il provino con la chitarra. Con tante persone della RCA siamo ancora amici. Oggi basta un computer e un’AI. Tutto avviene in una condizione eterea. Il risultato sono canzoni effimere. La nevicata del ‘56 ha 35 anni, La voglia di sognare di Ornella Vanoni ne ha 50, come Mondo di Riccardo Fogli. Sono canzoni che vengono cantate nei talent dai giovani, mentre canzoni di 2 anni fa sono già dimenticate. Se la mancanza del contatto fisico ha un’influenza negativa o positiva, lo vedremo nel tempo, ce lo diranno i posteri.

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Un sociologo americano sosteneva che ci stiamo lasciando alle spalle un grande deserto digitale. Questo secondo me è un po’ il quadro oggi.

Sulle piattaforme una canzone fa milioni di passaggi, numeri impensabili per i dischi. Ma dopo un anno il tormentone è finito nel cestino. Cosa ha reso quella musica italiana immortale?

I tormentoni scompaiono in questo famoso deserto digitale. Manca la fisicità, il tatto: i dischi in vinile, le cassette, erano cose che si toccavano, che potevi tenere come un libro di carta, che diventava un oggetto di affezione. Adesso tutto avviene su Spotify: cose che scompaiono; milioni di visualizzazioni, ma quanto sono durate? 3 secondi, 4 secondi? l’hanno sentita tutta? Il disco lo portavi alla festa degli amici, ti fidanzavi con la ragazza, lo portavi in vacanza. Creavano rapporti umani e i rapporti umani venivano segnati da quella canzone che diventava un ricordo personale, indelebile.

Qualche anno fa, durante una cena a casa di un editore, venne fuori che avevo scritto La voglia di sognare. Quest’uomo inappuntabile è diventato un bambino che, con gli occhi spalancati, mi ha detto: ma questa è la canzone con la quale mi sono innamorato di mia moglie; ci siamo sposati grazie a questa canzone. La musica, il teatro, scuotono i nostri sentimenti, anche i più reconditi e li riportano a galla. Ci mettono in contatto con la parte più viva di noi. Il nostro è un tempo in cui rischiamo ogni giorno di perdere questo contatto.

L’avvento delle piattaforme ha cambiato il mondo della musica. Danno davvero la possibilità a tutti di arrivare al pubblico bypassando i produttori discografici?

Con Spotify, YouTube e simili, chiunque può pubblicare una canzone senza bisogno di una casa discografica. Ma il problema è la visibilità. I direttori delle grandi etichette non vanno sulle piattaforme a cercare nuovi talenti. Non basta caricare una canzone online, bisogna farsi notare. Questo ha portato alla ricerca ossessiva della viralità più che del contenuto. Oggi si cerca di stupire prima ancora di trasmettere un messaggio profondo. Guardiamo TikTok: è un circo visivo, iconografico, dove per emergere si deve spesso sacrificare la qualità.

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Come vede il ruolo dell’intelligenza artificiale nella creatività?

È una questione complessa. L’IA può essere un aiuto, ma solleva molte domande, soprattutto sui diritti d’autore. Se un algoritmo crea una canzone o un testo teatrale, chi ne è l’autore? Inoltre, l’IA si nutre di un database enorme di opere già esistenti, ma chi tutela la paternità di queste opere? È un dibattito che dovremo affrontare seriamente.

Lei ha insegnato scrittura televisiva. Drammaturgie e sceneggiature sono il grande problema di oggi. Quali difficoltà ha riscontrato nei giovani autori?

Ho notato una grande frammentazione delle conoscenze. I ragazzi di oggi apprendono molte nozioni, ma spesso non riescono a collegarle tra loro. Quando ero giovane, si cresceva in un “brodo culturale” che ci permetteva di assorbire informazioni in modo più organico. Oggi, con l’accesso immediato a tutto, sembra che manchi una connessione tra le cose. Ho trovato allievi brillantissimi, ma con difficoltà a fare sintesi.

Il suo “Ugo” torna in scena all’OffOff Theatre di Roma. Il teatro è una forma d’arte che ha futuro nella sua forma tradizionale, fuori dalle piattaforme?

Assolutamente sì. Il teatro è vivo, concreto, fisico. È uno dei pochi posti in cui si può ancora vivere un’emozione autentica, condividere un momento reale con il pubblico. C’è una dimensione carnale, di respiro, di odori, di presenza che nessuna tecnologia può sostituire. Dobbiamo proteggerlo, perché rischiamo di perdere il contatto con ciò che ci rende umani.

E come nascono invece le sue storie?

Quando ho scritto Ugo, quando scrivo i miei libri, ho in mente il pubblico. Davanti a me c’è sempre una persona su una sedia che vuole divertirsi, commuoversi, pensare, riflettere. Se scrivo solo per me perché ho voglia di dire qualcosa, ho fallito ed è meglio che vada a fare un altro lavoro. Questo ha fatto sì, probabilmente, che fossi considerata un’autrice popolare e non intellettuale, ma è ciò di cui sono più fiera. Ancora oggi sono prima di tutto spettatrice e ascoltatrice: vado al cinema come quando ci andavo a 6 anni, e sono un giurato del Davide Donatello, vado al teatro come ci andavo a 13, ascolto la musica come la ascoltavo a 15.

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