di Rock Reynolds
Siamo in Francia, ai giorni nostri, il paese europeo laico per eccellenza, quello che per primo ha tentato di fare piazza pulita di monarchia e aristocrazia – la forma più istituzionalizzata di razzismo, al punto che il messaggio che sottende, ovvero la presunta superiorità di qualcuno per natali, è del tutto passato in cavalleria – e che, si trova a fare i conti con l’integralismo religioso di stampo islamico che i padri costituenti non avrebbero mai pensato potesse un giorno minare le basi stesse della convivenza civile. È la Francia che si sveglia bruscamente, sferzata dall’onda lunghissima del postcolonialismo, con programmi di integrazione a beneficio delle forti minoranze etniche e religiose, implementati più come misura di urgenza che con pianificazione lungimirante. È la Francia delle banlieu, quelle aree periferiche di grandi agglomerati urbani che tanta cinematografia noir ha fatto conoscere al mondo come centri esplosivi di disagio sociale, quartieri dormitorio in cui non succede nulla tranne microcriminalità, violenze e soprusi, sacche di cemento in cui lo stato finisce per abdicare al proprio ruolo di controllo e sviluppo e per abbandonare a se stessi quelli che finiscono per essere cittadini di serie B. Ma è pure la Francia delle cittadine di provincia in cui, almeno in teoria, il tessuto sociale è rimasto coeso e in cui persino i francesi “DOC” e le famiglie di origine magrebina che si sono stabilite nel paese da generazioni convivono serenamente. È la Francia in cui Georges Bernanos ambientò nel 1936 il suo celebre romanzo Diario di un curato di campagna, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1945, un’analisi disincantata dei tormenti dell’uomo-sacerdote sotto l’abito talare.
Ed è proprio in una cittadina di provincia nel Sudovest della Francia, Brandes, che Etienne de Montety ambienta il suo romanzo La grande tribolazione (edizioni e/o, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, pagg 221, euro 19), una splendida vicenda che non lascia spazio a sorrisi e ottimismo.
La grande tribolazione è un bellissimo romanzo che non fa sconti a nessuno, raccontando una storia lineare, seppur seguendo le strade separate – che finiranno per convergere – di quattro diversi protagonisti: un parroco di provincia che ha fatto la guerra d’Algeria, un poliziotto di origini vietnamite, un giovane ribelle di famiglia marocchina ma nato in Francia e un altro giovane marocchino che scopre di essere stato adottato da genitori francesi benestanti, che non gli fanno mancare nulla. Una vicenda credibilissima, raccontata senza autocompiacimenti letterari. Insomma, non uno di quei romanzi sperimentali che tanto piacciono ai critici – soprattutto se possono intestarsene la “scoperta” – e che solitamente ai lettori piacciono meno, comunque soltanto perché, se ammettessero che leggerli è stato una sofferenza e che non ci hanno capito un’acca, si sentirebbero ancor più scemi di come gli è capitato di sentirsi sforzandosi di finirli. Insomma, niente trucchi e niente inganni.
È nella chiesa parrocchiale di Saint-Michel, a Brandes, «che non è certo un gioiello dell’architettura», che prende le mosse e si conclude il racconto di de Montety. Padre Georges Tellier è “stanco” e non sa dire bene perché. Non ha mai dubitato profondamente della propria fede, ma l’arrivo in parrocchia di una donna solare, un po’ più procace del dovuto e molto aperta e cordiale scuote le certezze che lo sostengono e animano da sempre. David Berteau vive nella bambagia di una famiglia adottiva che lo ha cresciuto negli agi e nella serenità. Non gli manca davvero nulla, eppure, il giorno in cui si rende conto che sotto il suo aspetto di europeo conclamato si cela un corredo genetico e culturale nordafricano, le sue convinzioni si sgretolano. La frequentazione di un centro islamico ortodosso alimenta il disagio e il bisogno di nuovi punti di riferimento, di certezze identitarie. Non gli fa bene l’amicizia con Hisham Boulaïd, a sua volta magrebino, però di una famiglia umile che, differenza di David, vive di piccoli espedienti in un degradato quartiere popolare. Frédéric Nguyen è nato in Francia da genitori vietnamiti in fuga dagli orrori della guerra e corona il suo sogno di entrare in polizia, diventandone addirittura capitano. Quattro storie all’apparenza normali, come ce ne sono tantissime in Francia e nel resto d’Europa. Ma la Francia è stata, insieme alla Gran Bretagna, la prima nazione europea ad aprirsi all’immigrazione dalle colonie e per prima ha dovuto reinventarsi, talvolta con ottimi risultati e talvolta meno.
Etienne de Montety ha pubblicato La grande tribolazione nel 2020, eppure non si può fare a meno di pensare alla cappa di paura e orrore che si era addensata sulla Francia e sull’intera Europa a partire dal 2015, con gli attacchi terroristici alla sede di “Charlie Hebdo”, al Bataclan, al sacerdote cattolico assassinato sull’altare della sua chiesa in Normandia mentre diceva messa e via discorrendo. Che un’ondata di terrore religioso, come anticipato, abbia travolto proprio la Francia, il paese che più di ogni altro fa della separazione tra stato e religione una bandiera, ha scioccato ancor più la comunità che l’ha subita, senza fortunatamente mai metterne in discussione l’orgoglio laico. Etienne de Montety non cerca facili derive propagandistiche e non cede alla spettacolarizzazione del dolore e della violenza, limitandosi alla descrizione analitica di come la radicalizzazione di giovani all’apparenza innocenti sia sempre dietro l’angolo e, talvolta, si sottragga a spiegazioni razionali. Di libri che tentano di spiegarne i diabolici meccanismi ne sono stati scritti tanti, sia nel campo della narrativa che della saggistica. Mi permetto di indicarvene uno su tutti, guarda caso pubblicato dallo stesso editore, e/o: La stella d’Algeri, del compianto Aziz Chouaki, vincitore del Premio Flaiano nel 2004. Nato in Algeria e morto in Francia, questo grande autore (figlio della passione per il jazz e la cultura afroamericana) ha rappresentato in maniera straordinaria le trappole socio-familiari che portano molti giovani magrebini (e non solo) ad accostarsi a cattivi maestri e a imboccare vicoli ciechi la cui unica via d’uscita è l’annientamento.
Sociologi, politici e gente comune fanno chiacchiere da bar all’indomani di ogni atto di violenza integralista – pare che il palcoscenico dalla Francia ora si sia trasferito in Germania – ma di risposte condivisibili ce ne sono sempre meno. A pensarla come David, che sceglie di ribattezzarsi Daoud, sono in tanti, soprattutto fra i giovani musulmani che, malgrado siano stati accolti in una terra straniera, non se ne sentono realmente parte. La battaglia del futura potrebbe essere proprio quella: abbattere i muri, non costruirne altri, creando autentica comunione. Altrimenti, parole come queste saranno il seme di ulteriori disastri: «La compiacenza generale nei confronti dello “spirito Charlie [Hebdo]” l’aveva disgustato e il disgusto non gli era passato. Il mondo non aveva soltanto difeso il male, l’aveva celebrato, dal presidente della repubblica al più umile dei cittadini, mentre il bene e la religione erano stati sbeffeggiati e messi in ridicolo da giornalisti e umoristi».