Standing ovation per Paola Minaccioni alla Sala Umberto

Paola Minaccioni è "Elena, la matta": dal Ghetto all'inferno di Auschwitz, un viaggio nella memoria di Roma e del Ventennio

Paola Minaccioni - Elena, la matta - recensione di Alessia de Antoniis
Paola Minaccioni - "Elena, la matta" - Ph Guglielmo Verrienti
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15 Febbraio 2025 - 23.59


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di Alessia de Antoniis

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Standing ovation al teatro Sala Umberto di Roma per Elena, la matta. E non è la prima, non è la seconda, è il penultimo giorno di repliche di uno spettacolo che va in scena dal 5 febbraio. Una serie di sold out che ha richiesto una replica aggiuntiva di sabato pomeriggio.

Io c’ho provato a avvisalli, ma non m’hanno creduta”. È Paola Minaccioni nei panni di Elena Di Porto, per tutti Elena la matta. È disperata, accorata. Paola è nel ruolo, è suo, lei è Elena. Fa battere il cuore della popolana romana, emoziona, commuove. Il pubblico lo sente. Non assiste solo a una rappresentazione. Paola Minaccioni restituisce a Roma un pezzo della sua storia, della sua memoria. Un viaggio in una Roma dimenticata, per molti sconosciuta. Una Roma che si è persa insieme ai ricordi di chi non c’è più. Come un arpeggio, la Minaccioni passa da una nota all’altra senza risparmiarsi per oltre un’ora: arrabbiata, preoccupata, tenera, emozionata, attonita, spaesata, battagliera, ironica, affranta. È energia pura.

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La regia di Giancarlo Nicoletti restituisce una storia vera, scritta da Elisabetta Fiorito, creando uno spettacolo potente e coinvolgente. Con la collaborazione dei musicisti Valerio Guaraldi e Claudio Giusti, Nicoletti ricostruisce le spensierate canzoni dell’epoca, dà voce ai personaggi mancanti, crea il vociare dei vicoli di Roma, del Ghetto ebraico, dei ragazzini per strada; il passo dei soldati delle SS Naziste che il 16 Ottobre 1943 rastrellano il ghetto di Roma, deportando ad Auschwitz 1.023 ebrei della comunità romana.

Quegli ebrei che “avevamo ancora addosso la paura delle persecuzioni”, che “non eravamo israeliti ma ancora ebrei”, che stavano in casa festeggiando Shabbat perché “te pare che er papa ce fa portà via sotto l’occhi sua?”. Quegli ebrei romani che ai nazisti “J’avemo dato 50 kg d’oro”. L’oro delle collanine dei bambini, delle fedi nuziali.

Ma Paola Minaccioni racconta anche una storia al femminile, di una Elena sognatrice, ribelle, anticonformista: “Che male c’è a volé esse libera? Io perché non potevo esse libera?”. Racconta storie di donne che riempivano il manicomio di S. Maria della Pietà, dove verrà rinchiusa varie volte fin da quando aveva solo 15 anni: donne rinchiuse perché si erano ribellate a mariti violenti; quella che non si era voluta fare suora e, disobbedendo ai genitori, si era innamorata; la madre che aveva accoltellato il vecchio che stava stuprando la figlia; quella che aveva semplicemente detto che “Mussolini e i fascisti sono tutti assassini”.

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Nei racconti di Elena si ritrova una Roma che sembrava più grande, fatta di quartieri distanti, nuovi, “che avevo solo sentito nominà”. Quando S. Maria della Pietà era lontana nella campagna romana e le grida dei reclusi si perdevano nei campi.

A distanza di ottant’anni da una delle pagine nere della storia d’Italia, il monologo di Elena, “la matta di piazza Giudia”, è un viaggio a ritroso nel tempo, nell’Italia della Seconda guerra mondiale, delle leggi razziali, della paura ma anche della speranza e della solidarietà. Il racconto di una Cassandra che non fu creduta perché il Regime l’aveva bollata come “matta”: “Perché dovrei credere a te e non al comandante in capo? Vattene!”, le rispondono i capi della comunità ebraica romana che cerca disperatamente di avvisare della tragedia incombente.

Paola Minaccioni porta il pubblico in sala fino a quel ghetto dove era sceso il silenzio: “Manco er papa ha detto ‘na parola. Eppure eravamo sotto all’occhi sua”; quel papa che aveva salvato gli ebrei convertiti, anche quelli convertiti all’ultimo momento. E poi ancora su quel treno partito dalla stazione Tiburtina, che viaggiava da giorni senza sosta, sul quale era salita per non lasciare soli i nipoti: “Ce stanno a portà al macello come le bestie”. Quel treno dove un’anima bella del cuore di Roma cerca di tranquillizzare chi viaggia con lei verso l’inferno: “È solo fino alla fine della guerra. È momentaneo. E mica ce potranno ammazzà tutti”. Tutti e 1023 no: ne tornarono vivi 16.

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Una grande prova attoriale. Un pubblico uscito colpito, emozionato, commosso. Uno spettacolo imperdibile, necessario, urgente. Un teatro che si fa resistenza e che si oppone all’oblio e alla riscrittura della storia.

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