di Lucia Mora*
Ho letto cose che voi umani. «Lucio Corsi è il nuovo Ivan Graziani», «sembra di rivedere David Bowie nelle spoglie di Ziggy Stardust». Calma, ragazzi. Calma. Intendiamoci: se Filippo Graziani riconosce in Corsi qualche frammento del genio del padre, ha ragione lui. Nessuno più di Filippo ha il diritto di azzardare questo paragone. Viene da chiedersi però quanto questa somiglianza sia effettivamente un chiaro segnale dello stesso talento e quanto invece sia figlia della speranza di aver finalmente trovato un erede della vecchia scuola cantautorale. Graziani poi nello specifico è un cantautore troppo, troppo sottovalutato ed è facile lasciarsi prendere dall’entusiasmo non appena qualcuno dimostra di ispirarsi a lui.
Soprattutto in un Festival come quello di Sanremo, dove il livello musicale (tecnico, creativo, innovativo) rasenta l’insignificanza e il minimo accenno di bravura fa credere di aver trovato l’oasi nel deserto. Sia chiaro: la decadenza non dipende minimamente dal mutare dei gusti e dei generi predominanti nelle classifiche. La trap per esempio non è per forza il male assoluto, anzi: nei casi più nobili è il mezzo con cui le nuove generazioni comunicano i disagi del proprio tempo.
Ma da qui a credere che sia normale partecipare alla festa della canzone italiana per eccellenza senza la minima competenza in ambito musicale, un po’ ce ne passa. E a proposito di incompetenza, ho troppo rispetto del mio e del vostro tempo per dedicare righe ed elucubrazioni a fenomeni come Tony Effe, Achille Lauro, Rkomi e Olly (che a quanto pare si ritiene così bravo da potersi permettere di rimaneggiare Il pescatore lasciando completamente in disparte un gigante come Goran Bregović: aiuto). Sia loro lieve l’inconsistenza.
Meglio soffermarsi su chi ha quantomeno fatto lo sforzo di portare sul palco dell’Ariston un brano sorretto da una visione artistica, come Simone Cristicchi e Fedez. Un accostamento che farà storcere il naso ai fan dell’uno e dell’altro, ma che si basa su una constatazione molto semplice: nessuno più di loro ha messo a nudo la persona oltre l’artista. Quando sarai piccola e Battito nascono dallo stesso bisogno di condividere la fragilità e il dolore.
Ci troviamo di fronte a capolavori come Hotel Supramonte o Canzone per un’amica? No. Al contrario: il testo di Cristicchi è intrappolato in una narrazione molto retorica della malattia senza un accompagnamento musicale all’altezza del dramma emotivo, mentre Fedez si ostina a lanciarsi verso tonalità che per la sua estensione vocale equivalgono a correre una maratona con le stampelle e che inevitabilmente trasformano il ritornello in una parentesi atroce che speri finisca il prima possibile.
Nonostante i difetti, però, queste due interpretazioni restano le più sincere, fosse anche solo perché non hanno alle spalle i soliti autori che scrivono metà delle canzoni in gara, garantendo un appiattimento assoluto sotto ogni punto di vista, dalle sonorità ai temi trattati, che ormai sono più prevedibili di un ritardo di Trenitalia. Che questo sia un Festival senza cifre stilistiche lo si capisce a partire anzitutto dalla sua direzione artistica.
Amadeus non aveva certo messo in piedi la nuova Woodstock, ma sapeva almeno come intrattenere (che per uno show di questo calibro dovrebbe essere il requisito minimo) e ospitava una pluralità di pensiero, anche politica. Carlo Conti è riuscito a far scoprire al mondo una nuova definizione di noia passando dalla millantata «reunion dei Pink Floyd» (!) a un videomessaggio – peraltro abusivo – del Papa.
Siamo passati da The Dark Side of the Moon a un medley di Jovanotti (!) che per mezz’ora ci ha ricordato quanto questo Paese sia musicalmente (e non solo musicalmente) senza speranza. Neanche ci provo a rivalutare l’esibizione di Noa e Mira Awad, e non perché non abbiano talento, ma perché sfruttare Imagine per ridurre un genocidio a uno slogan contro la guerra è un’opera di paraculismo furbetto che con John Lennon, con il pacifismo e soprattutto con la realtà dei fatti ha pochissimo a che vedere.
Passano gli anni, ma una certezza rimane: a Sanremo la musica è la vittima. Manca proprio una visione illuminata che la metta al centro invece di considerarla solo un contorno quasi superfluo ai siparietti da rotocalco. Perché la musica non è una cornice. La musica è rifare Creuza de mä tre volte nel rispetto di chi l’ha maniacalmente incisa.
Musica è entrare in sintonia con l’artista che si omaggia, inserendo versi in aramaico nel suo capolavoro perché lui avrebbe voluto così, perché questo è il senso di una cover. Musica è Edoardo Bennato che da solo, con chitarra, batteria a pedale e kazoo ha riempito il palco più di quanto Modà e The Kolors non riescano a fare in otto. Musica è ricordare Paolo Benvegnù, come Brunori Sas ha giustamente fatto: un cantore sopraffino, un timido cronico perennemente insicuro, vincitore in carica della Targa Tenco per il miglior album. Un’anima salva scomparsa troppo presto che con lo sfarzo e il chiacchiericcio del Festival, per fortuna, non c’entra niente.
*Lucia Mora scopre la Musica all’età di 10 anni, seduta nella tribuna est dello Stadio Olimpico di Torino il 21 luglio 2009, quando un concerto di Bruce Springsteen cambia la sua vita per sempre. Inizia a suonare male ma convintamente la batteria, al liceo scopre il cantautorato e consegue un diploma di maturità classica con una tesina su Giorgio Gaber. La tesi di laurea in musica e spettacolo all’Università di Trento la scrive invece su Francesco Guccini e sul valore della memoria. Con il Comune di Borgomanero dà vita al progetto “A scuola dai cantautori” per avvicinare studenti e studentesse ai grandi cantautori italiani. È addetta stampa di Ver1 Musica, associazione culturale con cui promuove eventi di musica dal vivo nel novarese.