La difficile arte di vestire il cinema
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La difficile arte di vestire il cinema

Intervista amichevole con Massimo Cantini Parrini uno dei nostri costumisti più premiati, candidato due volte agli Oscar. Ci racconta i suoi esordi e cosa significa creare i costumi per il cinema in Italia e all’estero, tra film e serie tv.

La difficile arte di vestire il cinema
In foto Massimo Cantini Parrini
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5 Febbraio 2025 - 17.42 Culture


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di Luisa Marini

Con Massimo siamo amici da quando, per un corto del Centro sperimentale a Roma, mi vestì proprio da giornalista anni 70 per partecipare a una scena come comparsa. Dopo il diploma, il suo esordio nel cinema come costumista accreditato è stato nel film Carnera di Renzo Martinelli, la storia del famoso pugile, e da allora la sua carriera è esplosa ed è stata costellata da molti premi e ben due candidature agli Oscar.

Massimo, vuoi parlarci dei tuoi inizi?

Sì, prima di firmare i costumi di Carnera per 10 anni ho fatto l’assistente di Gabriella Pescucci, premio Oscar nel ’94 per L’età dell’innocenza di Martin Scorsese. Non ho mai avuto fretta di fare il costumista, ho voluto prima formarmi nel modo migliore possibile, quindi ho studiato, poi ho fatto l’assistente, per poi iniziare nel momento in cui mi sentivo pronto. Non è come oggi che escono dalle scuole e vogliono subito fare i costumisti, volevo essere super preparato, prima.

La tua, infatti, è una vera passione, nata grazie a tua nonna materna, che era sarta a Firenze; poi hai studiato molto, dall’Istituto statale d’Arte di Firenze al Polimoda, per poi laurearti in Cultura e Stilismo della moda all’Università di Firenze. Nel mezzo, ti eri diplomato al Centro sperimentale di cinematografia a Roma, dove hai avuto come insegnante un altro mostro sacro del costume per il cinema, Piero Tosi.

Sì, e dopo il diploma al CSC sono diventato anche suo amico. Ma in realtà i miei maestri sono stati tre, perché oltre a Tosi e alla Pescucci mi sono formato anche sulla teoria in Storia del costume con Cristina Giorgetti al Polimoda.

Adesso tu sei un costumista internazionale perché lavori moltissimo anche a Hollywood: hai notato qualche differenza in particolare nel modo di lavorare in Italia e all’estero?

Banalmente, sono diverse le possibilità economiche che dà un film americano rispetto a uno italiano; ma, più che altro, la differenza sta nel fatto che in America difendono il prodotto e di conseguenza il lavoro di ognuno, che sia il montatore, lo scenografo o il costumista, che sono tutti ad un livello molto alto. In Italia purtroppo il film non si difende come fanno all’estero (anche a livello pubblicitario, poi molti film sono distribuiti in poche sale delle grandi città e per poco tempo); di conseguenza, in Italia non si difendono neanche le maestranze, cioè, esistono i registi, i produttori e gli attori, stop. In America invece no, tu sei allo stesso livello di un regista o di un attore importante, chi esteticamente ha costruito il film è difeso e tenuto veramente su un piedistallo, l’unica differenza che vedo con gli italiani è questa.

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Questo è giusto, perché ognuno ha la sua specifica professionalità e contribuisce alla pari a un film, in effetti in Italia c’è questa modalità che dici. Quale progetto ti ha dato finora maggiori soddisfazioni?

Devo dire che, quando scelgo un film da fare, questo mi dà in egual modo tutta la soddisfazione possibile a livello personale; poi è chiaro che ci sono quei film che naturalmente hanno più successo anche di critica, e quindi di conseguenza anche la visibilità è diversa, arrivano le premiazioni e quindi certo ti danno più soddisfazione, come Il racconto dei racconti, Pinocchio, Cyrano, Ferrari, cioè quelli un pochino più grossi, quelli in costume soprattutto. Ma amo tutti i lavori che ho fatto e per quanto mi riguarda sono allo stesso livello.

Tu hai fatto anche i costumi della serie M – il figlio del secolo. Immagino che, quando lavori, fai sempre uno studio storico molto attento, filologico: me ne vuoi parlare?

Io ho amato M in modo viscerale, la considero una delle cose più belle che ho fatto. Col regista avevo già lavorato per Cyrano, Joe Wright si può chiamare regista con la R maiuscola, perché veramente tiene le fila di tutto, si fida delle persone che chiama a lavorare con lui ed è uno che ama il costume, che non ne ha paura. M per me dunque è stato un lavoro meraviglioso, intanto perché non avevo mai fatto una serie, quindi è stata una sfida – non le avevo mai accettate perché mi proponevano cose che non mi stimolavano; questa volta ho detto di sì perché veramente ho intuito che poteva essere un bellissimo prodotto. È stato molto complicato perché si tratta di un periodo storico che nelle sartorie non esiste, quindi abbiamo dovuto realizzare migliaia di abiti d’epoca nuovi e invecchiarli.

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In quanti eravate nel settore Costume per M?

Nel reparto eravamo una sessantina di persone perché c’erano tantissime cose da fare.

Oggi, quindi, quando si realizza una serie come M o il tuo ultimo Le Déluge, non ci si affida più a una sartoria come poteva essere Tirelli, ma si crea un cast di costumeria ex novo?

Mi piace talmente tanto fare i vestiti che tendo a voler creare il mio laboratorio, se ne ho la possibilità, perché comunque si tratta di un altro approccio: seguo l’abito dalla mattina alla sera e non devo andare in sartoria. Poi, per affezione, vado anche da Tirelli, da Peruzzi, da Anna Mode, sartorie storiche con cui collaboro da anni, mi fa piacere far fare loro delle cose, ma per la maggior parte anche Maria l’ho fatta in laboratorio da me.

È meravigliosa questa cosa perché diventa un lavoro completamente tuo. Cosa stai seguendo ora, passato il tour di interviste per Maria?

Adesso a Napoli sto preparando i costumi per un’altra serie che sarà girata a marzo, che si intitolerà La scuola. Parla di un’accademia militare totalmente inventata, l’ho accettata perché dovevo inventare delle cose, è contemporanea però i gradi, le divise sono tutti completamente inventati, senza riferimenti alla realtà di nessun genere, e questo mi piace.

Capisco che nel tuo lavoro hai sempre bisogno di stimoli nuovi.

Sì, ma ce ne sono sempre meno perché purtroppo la cultura visiva dei giovani registi è completamente diversa da quella dei registi di anni fa, è tutto molto più veloce, il computer e internet hanno cambiato tanto, le richieste sono completamente diverse. Io lavoro in un modo un po’ ancora “antico”, mi piace documentarmi e trarre ispirazione sempre dal passato, il futuro lo tocco pochissimo.

Questo lo trovo bello e importante, perché curi la memoria di quello che è stato e la rendi viva.

Sì, anche se non si fa, siamo tutti fatti di passato, quindi secondo me arriva di più questo al pubblico come linguaggio, che stravolgere completamente un film sotto il punto di vista del costume.

C’è un regista in particolare col quale non hai mai lavorato ma col quale ti piacerebbe collaborare?

Ce ne sono tanti, ma io dico sempre Wes Anderson, perché lui l’estetica la cura all’inverosimile e credo che potremmo andare molto d’accordo.

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Ti è capitato di lavorare anche per il teatro?

Sì, però il teatro ha delle tempistiche completamente diverse dal cinema, tu magari devi dire di sì a un’opera lirica nel 2025 per il 2027, ma io dove sto tra due anni non lo so!

A me piace molto di più il cinema e quindi dico di sì a delle cose che sono più “cotte e mangiate” che programmate con tanto anticipo. Poi, chi mi vuole tanto, e questo è un processo che ho fatto con alcune opere liriche, mi dice “non ti preoccupare, poi troviamo il modo”, e così ho fatto, ma il teatro mi dà più ansia del cinema.

Mi vuoi citare almeno un’opera lirica in cui hai collaborato?

Adesso c’è la ripresa di una Tosca che ho fatto al San Carlo di Napoli per la regia di Edoardo De Angelis. È in chiave un po’ autarchica anni 80, con delle ispirazioni che partono anche dagli anni 40; mi è piaciuto farla, ma infatti l’ho curata all’ultimo secondo, tutti erano in ansia ma li ho tranquillizzati ed è andato tutto bene.

Tu immagino parta dal bozzetto degli abiti, giusto?

Parto più che altro a camminare nei musei! Poi se ho il tempo disegno, perché il bozzetto serve a chiarire, anche se essendo uno storico del costume mi devo chiarire poco, nel senso che in mente ho già tutto; il disegno mi serve più per far capire al regista quello che andremo a fare. Il disegno per me è anche pericoloso perché magari faccio vedere al regista una cosa che poi non ci sarà mai, perché cambio idea in continuazione. Lo avverto e gli dico “guarda, può essere che questo non lo vedi mai”, infatti molte volte disegno solo quando so che una cosa mi piace e che sarà quella, ma proprio per piacere; poi molte volte i bozzetti me li chiedono i giornali e li faccio anche a monte della realizzazione dell’abito.

Un’ultima domanda: tu hai dei collaboratori fissi?

Sì, ho un gruppo storico di lavoro di 4, 5 persone fidate, poi a volte prendo anche assistenti nuovi se il film è grande.

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