“C’era una volta a Roma”: un viaggio romanzesco nel cinema western italiano 
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“C’era una volta a Roma”: un viaggio romanzesco nel cinema western italiano 

All’esordio letterario, Manuel De Teffé racconta la storia del padre, l’icona del western all’italiana Anthony Steffen, protagonista di una fervida stagione artistica della nostra storia

“C’era una volta a Roma”: un viaggio romanzesco nel cinema western italiano 
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

13 Gennaio 2025 - 20.00


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Capitale per antonomasia del cinema italiano, nella metà degli anni Sessanta Roma viveva un periodo di grande fermento artistico e culturale, prodromo di una rivoluzione del costume: la “dolce vita” cedeva il passo ad altra febbre, quella del western all’italiana, aurifero filone originato dall’impreveduto successo di Per un pugno di dollari di Sergio Leone.

Un’opera narrativa apparsa di recente ci restituisce i sapori di quella stagione unica: si tratta di C’era una volta a Roma, di Manuel De Teffé (Readaction Editrice, pp. 536, € 25). Regista, produttore e insegnante di storia del cinema, in questo esordio letterario l’autore presenta la storia familiare e artistica del padre, Antonio De Teffé von Hoonholtz alias Anthony Steffen, attore romano di origine prussiana, icona del western nostrano. Singolare romanzo di formazione di un uomo già formato, De Teffé coglie “il cowboy di via Archimede” nel mezzo del cammin di sua vita, “all’apice del suo glorioso anonimato di attore teatrale”: un aristocratico interprete shakespeariano quarantacinquenne che ha “accumulato troppe false partenze”, un “anarchico pirandelliano con ascendente al cioccolato e panna” che ha come livre de chevet L’arte della guerra di Sun Tzu.

La scintilla scatta nel prologo, dove appare l’ex campione dei pesi massimi Rocky Marciano, preda di una delle “battaglie interiori invisibili” che costellano i personaggi, reali e di finzione, mescolati in una fantasmagoria inventiva da vero scrittore, con la capacità di trasfigurare la realtà in un immaginario condiviso. De Teffé si appoggia al contesto storico, rappresentando un’epoca che ha segnato profondamente il nostro Paese: la Roma ritratta è città percorsa da complessi mutamenti sociali e insanabili contraddizioni (la polarizzazione ideologica della guerra fredda, il conflitto del Vietnam con le manifestazioni pacifiste, la presenza invasiva della pubblicità, la riflessione sul fare artistico), un ambiente che si presta a considerazioni su temi universali quali la libertà, l’importanza e l’autonomia della sfera creativa, il desiderio (e la difficoltà) di realizzare i propri spazi identitari.

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Su tale sfondo, in equilibrio tra storia, dato biografico e invenzione letteraria, con una narrazione in terza persona che consente una più ampia visione di eventi e personaggi (anche resi però con inserti da stream of consciousness), l’autore mette in scena la metamorfosi di un uomo che si lega alla nascita del western all’italiana: un ritratto “intimo” e vivido, verosimile se non reale, com’è dell’arte. Il testo trascende dunque il mero vissuto, configurandosi come un’opera di finzione che, pur radicata nella realtà, si libera dai legacci della cronaca per percorrere le possibilità creative (epistemologiche, verrebbe da dire) offerte dalla letteratura, con i cui strumenti si esplora il triplice rapporto tra romanzo, cinema e teatro, lo slittamento identitario di chi (Steffen) ha attraversato da protagonista gli ultimi due, e di chi (l’autore) prova a narrarne il passaggio d’ambito, approdando così ad una rivelazione di sé. Poiché il gioco mutevole dell’identità è il cuore del romanzo, strutturato come successione di rivelazioni, epifanie, dei personaggi, del lettore che vi si lasci coinvolgere e, appunto, dello stesso scrittore.

In quest’ottica la parte più interessante è il segmento centrale, in cui Antonio De Teffé si trasforma in Anthony Steffen, processo di mutamento identitario realizzato grazie all’intuizione di Stella Adler (attrice e fondatrice del rinomato “Stella Adler Conservatory” di New York: non è, con Marciano, il solo personaggio reale, appaiono anche un disorientato Federico Fellini e diversi altri) e agli spiazzanti insegnamenti di un geniale docente russo di recitazione stanislavskijana, Pavel Turgenev, figura finzionale ispirata, sospettiamo, ad una realmente esistita. È grazie a costui, maestro nell’arte di “estrarre verità” dai suoi discenti, che il protagonista, con una rivoluzione interiore, si tramuta da prossemico attore teatrale a rude e affascinante cowboy: di simbolica pregnanza la scena della prima “vestizione”, a cui si raccorda quella esilarante in cui lo stesso seda una furiosa lite coniugale, in abiti da cowboy. Perché questa è opera percorsa da una gradevolissima vis comica, basata sull’umorismo che venava molti western nostrani: la riuscita artistica passa anche per il senso del ridicolo che lambisce i personaggi, non risparmiando lo stesso “eroe”, pur tratteggiato con rispettoso, nostalgico affetto.

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Scene da ricordare non mancano, come quella in cui l’attore, reduce da una matinée al teatro Eliseo, inforcando la sua Vespa si ritrova intrugliato in una manifestazione pacifista a piazza Venezia: riuscito blending di realtà e finzione, costume e ironia. O ancora, il lungo capitolo “C’era una volta in Germania”, in cui si reca nella Schwarzwald teutonica (dove anche, non a caso, si smarrisce) per imparare a cavalcare e “spariolinizzarsi” in vista del western in cui si accinge a recitare nei panni di Django, ulteriore apprendistato dopo la perturbante esperienza con Turgenev, suggestivo ritorno alle origini familiari nonché prezioso momento di “inculturazione”.

Il cinema è deuteragonista del romanzo: non semplice sfondo delle vicende, ma parte germinale della trama, in grado di influenzare le vite dei personaggi e di plasmarne l’identità. Si rievocano con vividezza le “produzioni sgangherate” che sorsero a bizzeffe: spassoso il quadro d’un provino del protagonista davanti a “un politburo di cinque omoni sfranti dal caldo” nel retrobottega di un bar di via della Magliana. Ma della settima arte è utilizzato anche il linguaggio: descrizioni, dialoghi, la stessa scansione strutturale delle scene hanno un deciso sapore cinematografico.

Sulla lingua dell’autore andrà spesa più d’una parola, poiché denota una consapevolezza che di rado è dato trovare nell’odierna letteratura nostrana, un’inventiva che dà luogo a inusuali calchi di metafore, sinestesie e similitudini, sempre congruenti con i temi, le atmosfere, i moti d’animo dei personaggi. Anche nell’accentuata propensione all’aforisma del protagonista la forma appare appropriata al contenuto: “giocoliere di silenzi moribondi”, egli intrattiene con il linguaggio un rapporto uterino, specchio della contezza del De Teffé scrittore. Più che “epigrafe che trasborda in un romanzo” (così si sente), egli appare la compiuta incarnazione di un’età dell’oro che suscita nostalgici ricordi in chi la visse e bonarie invidie in chi questa ventura non ha avuto.

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Non è l’unico personaggio dotato di una complessità che lo rende credibile: tale è anche l’avvenente e fascinosa giovane moglie (matrimonio d’amore che avviene “in corso d’opera”, arricchendo la vicenda d’una vena romantica), Antonella La Lomia, donna di deciso charme e “ineffabile eleganza” che evoca alla mente un’attrice come Audrey Hepburn, figlia d’una baronessa siciliana spiantata e responsabile delle pubbliche relazioni del Cavalieri Hilton, solido pilastro nella vita del marito e suo deus ex machina; o anche Giorgione Tonini, re dei grissini e laziale sfegatato, che al grido di “Vojofanfirm” prende una decisione che cambierà la vita sua e del protagonista: un visionario che si trasforma – anche lui – da rozzo industriale a illuminato produttore; e ancora, un regista ebreo in disarmo, prono al filosofema e narcolettico per un virus contratto in Amazzonia, che nel film da girare ritrova una ragione di vita, anche rappresentato in un’umoristica intervista con un critico ideologizzato e non troppo arguto che ben rende la temperie dell’epoca. L’autore si dimostra abile a tessere in sapidi tratti anche le figure di contorno, a gestirne gli idoletti (la nobildonna come il barista, il giovane pariolino come il greve figlio di un papà arricchito, e così via), con un uso gustoso del dialetto romanesco. Figure che agiscono con materica concretezza in luoghi e situazioni, resi con un’attenzione al dettaglio che offre al lettore un vivido quadro d’epoca.Al termine della lettura rimangono una levità di tocco, il garbo non soltanto linguistico, una “purezza dell’intenzione”, il forte contenuto di verità che in taluni passaggi avvicina il testo alla poesia. Insomma, un romanzo sui generis, che sembra un delizioso messaggio nella bottiglia lanciato ai posteri: come l’intelligente Antonella spiega ad un’agguerrita pacifista, il cinema cambia la realtà suggerendone un’altra. E così l’arte narrativa, di cui questo romanzo è inaspettata speme.

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