I neologismi su TikTok e Treccani: la lingua specchio della nostra società
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I neologismi su TikTok e Treccani: la lingua specchio della nostra società

Cinque neologismi nati sui social diventano parte della prestigiosa enciclopedia italiana, sono il simbolo di un linguaggio che evolve tra creatività e inclusività.

I neologismi su TikTok e Treccani: la lingua specchio della nostra società
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14 Dicembre 2024 - 21.37 Culture


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di Lorenzo Lazzeri

Milano, la città della moda, delle arti, e adesso, in un certo senso, anche della lingua, diviene per una sera, il punto focale per un evento che ha fatto convergere due mondi apparentemente inconciliabili. La tradizione della Treccani, che per quasi un secolo ha rappresentato il bastione e voce della lingua italiana, e la frenesia di un’applicazione conosciuta come TikTok, piattaforma e rappresentazione della polimorfia digitale si sono incontrate nella serata di ieri, 12 dicembre.

Le luci di un palco semplice, essenziale, hanno illuminato il direttore generale di Treccani, Massimo Bray, e Salvatore Di Mari, Head of Operations di TikTok Italia e Spagna. Due uomini, due visioni, una missione comune: raccontare come cinque neologismi – Creator, Delulu, Demure, POV e Slayare – siano entrati ufficialmente nel vocabolario della nostra lingua, traghettando la lessicologia italiana verso lidi inesplorati.

Bray, uomo di cultura e di memoria, ha parlato con quella calma tipica di chi conosce la storia e sa riconoscerne i cicli. Ha sorriso, come a voler disinnescare le critiche di chi teme che l’italiano possa diventare una lingua frammentata, imbastardita, dimentica delle sue radici. “La lingua non è mai ferma. È viva” ha detto, scandendo ogni parola come un maestro che insegna ai suoi allievi il valore della pazienza.

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E, di fatti, la lingua non è mai stata ferma. Neppure Dante, con la sua Commedia, avrebbe potuto immaginare che quel volgare fiorentino, scartato dalle élite dell’epoca, sarebbe diventato la base della nostra identità linguistica; ma adesso, a distanza di secoli, ci troviamo a fare i conti con un nuovo volgare, quello digitale, che nasce sulle piattaforme e si propaga con una velocità che il Petrarca avrebbe trovato inimmaginabile.

Ma qui c’è di più. Non è solo questione di velocità o di modernità, ma prova di significato. Parole come Delulu, che indicano un dolce rifugio nell’irrealtà, o Slayare, un verbo dal sapore quasi shakespeariano che celebra il successo e l’autorealizzazione, non sono semplici mode. Di fatto occorre percepirli come simboli di una generazione che, tra incertezze e speranze, cerca di ridefinire il proprio posto nel mondo.

Nell’animo di questa rivoluzione, rimane qualcosa di antico, di familiare. “Comunità” ha suggerito Bray, con l’apparente necessità di ribadire quanto dietro ogni neologismo, dietro ogni hashtag, ci sia una radice profonda che affonda nella storia. Comunità e non community, ha sottolineato. Perché le parole, come gli uomini, portano con sé un passato che non si può ignorare.

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Questo è forse il punto più interessante: il linguaggio digitale non distrugge, ma trasforma; non cancella, ma aggiunge ed è come un fiume che si biforca, portando acqua a terreni prima inaccessibili. TikTok, con la sua apparente leggerezza, si è trasformato in un laboratorio linguistico dove si sperimentano nuove forme di comunicazione, dove si testano i limiti della comprensione e della creatività.

L’inclusività è un altro elemento essenziale. Parole come Demure, che alternano eleganza e ironia, o POV, che invitano a cambiare prospettiva, riflettono una società sempre più attenta a includere, a rappresentare, a far sentire ogni voce. È il linguaggio del dialogo, della connessione, della condivisione.

Ma non vorrei illudervi. Il cambiamento linguistico non è mai un processo semplice. Come ogni rivoluzione, porta con sé dubbi, resistenze e inevitabili contraddizioni. Ci sarà chi storcerà il naso di fronte a questi nuovi termini, chi li giudicherà frivoli, inutili, persino dannosi. La storia insegna però che la lingua, come la società, non si piega alla nostalgia, all’uniformità ed il cambiamento, per quanto rassicurante, è inevitabile.

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E allora? In quella sera di dicembre, tra le luci di Milano e le parole di Bray e Di Mari, cosa di delinea? Certamente un futuro che non possiamo ignorare. Un futuro in cui la lingua non sarà più solo uno strumento, ma un luogo di incontro e ponte tra generazioni, tra tradizione e innovazione, tra passato e futuro, un luogo dove l’universalità dei pensieri e della comunicazione si scontra con l’irremovibile conformismo.

Noi, nel frattempo, non possiamo far altro che osservare, ascoltare, imparare, ma soprattutto tentare di accettare e comprendere il cambiamento, lasciandoci trasportare. Perché, come diceva Pasolini, “il linguaggio è la casa dell’uomo” E questa casa, oggi, è più grande, più aperta, più viva che mai.

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