di Rock Reynolds
Che lagna, che menata. Non mi va di leggere altra roba sul Medio Oriente. Ancora Israele, ancora i palestinesi, ancora Hamas. Non smetteranno mai di ammazzarsi. Si odiano troppo.
In quanti avrebbero voglia di reagire con parole simili all’ennesimo testo sulla questione palestinese? Tanti, temo. Eppure, la soluzione forse trova forma in un opuscolo breve quanto ricco di informazioni.
Non a caso, il libro in questione si intitola Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (Fazi Editore, traduzione di Valentina Nicolì, pagg 140, euro 15). A scriverlo è una delle massime (e pure più discusse) autorità in materia, Ilan Pappé, storico israeliano già autore di due testi classici come La pulizia etnica della Palestina e La prigione più grande del mondo. Discusso per i suoi studi revisionistici su alcuni elementi portanti del costrutto alla base dello Stato di Israele e per la sua visione antisionista, ovvero apertamente contraria alle politiche coloniali dei suoi connazionali.
Essendo “brevissima”, questa nuova storia dell’annoso conflitto potrebbe essere più appetibile per chi, dalla vecchia Europa e, in particolare, dalla sonnolenta Italia, non ne può più delle “solite” notizie. Io stesso dovrei averne fin sopra quei capelli che non ho, anche perché scrivere della questione palestinese, soprattutto dopo i fatti del 7 ottobre 2023, mi ha attirato non pochi strali, al punto che, addirittura, sono stato ripetutamente tacciato di antisemitismo.
D’accordo, Pappé ha una visione “di parte”. Chi non ce l’ha? L’unica obiezione che riesco ancora a far passare ogni volta che qualcuno mi accusa di tendenziosità e mi ricorda che, quel giorno, sono stati i palestinesi ad attaccare la popolazione civile israeliana con violenza inaudita, è di natura non storica né politica bensì umana. Ogni popolo ha il diritto di difendersi e, fino a un certo punto, di contrattaccare, ma ogni popolo ha pure il diritto a un territorio e a uno stato, a una dignità non calpestata da chi lo supera per potenza militare ed economica. E, comunque, basta guardare le immagini di devastazione e morte che hanno reso assuefatto il pubblico internazionale e i numeri delle vittime: quel diritto a difendersi (in realtà, a continuare ad attaccare) non può non tenere conto della disparità di forze sul campo.
Il libro di Pappé è breve ma pure molto ricco e richiede grande attenzione al lettore. «Il conflitto non è cominciato il 7 ottobre. Il segretario generale dell’ONU, António Guterres, nel condannare gli orrori perpetrati da Hamas, ha ricordato al mondo che i palestinesi sono soggetti a “una soffocante occupazione che dura da cinquantasei anni, ovvero dalla vittoria di Israele nella guerra dei Sei giorni del 1967”.» Peccato che, come sappiamo bene, le autorità israeliane abbiano nel frattempo dichiarato che la massima autorità delle Nazioni Unite è persona non grata nello stato della stella di Davide.
Pappé traccia le origini dei disastri odierni a ben prima di quella guerra lampo e, addirittura, prima dell’ormai famigerata Nakba, all’ultimo ventennio circa dell’Ottocento, con la nascita delle prime spinte sioniste internazionali, e soprattutto all’avvio di quella che ritiene una vera e propria campagna di pulizia etnica ai danni della popolazione palestinese, una teoria, questa, contestata da altri storici come il connazionale Benny Morris, secondo cui non ci sarebbero elementi probanti a tal riguardo. Peccato che lo stesso Morris abbia ammesso che l’espulsione di palestinesi dai loro territori nella fasi iniziali della creazione dello Stato di Israele siano state un male necessario. Pappé, però, si spinge pure a criticare aspramente l’ignavia della Gran Bretagna “mandataria” che, a suo dire, avrebbe assistito senza fare nulla alla «istituzione da parte del movimento sionista di una propria forza paramilitare, la Haganah». Secondo Pappé, è comprovata la «cooperazione tra le forze di sicurezza britanniche e i paramilitari sionisti». Insomma, non un quadro promettente, proprio come avvenne sul finire degli anni Sessanta in Irlanda del Nord, con l’esercito britannico che, invece di fare da paciere tra i due contendenti, ovvero nazionalisti cattolici e lealisti protestanti, si schierò apertamente dalla parte di questi ultimi.
Ciò che è chiarissimo nella ricostruzione storica di Pappé è l’intenzione chiara del futuro stato di Israele di trasformarsi in una potenza coloniale, sostituendosi di fatto all’Impero Britannico, stavolta con un connotato messianico ben più evidente. «La nuova espansione degli insediamenti sionisti mediante l’espulsione degli abitanti locali segna un cambiamento nella fisionomia del sionismo. Quello che era iniziato come un movimento per salvare gli ebrei… era diventato un progetto coloniale insediativo, che si fondava sulla subordinazione di un altro popolo.»
E proprio tale subordinazione pare essere il nocciolo della questione. Israele, almeno fino a oggi, non ha mai accettato un’idea che non fosse quella della Terra Promessa di biblica invenzione. Il colonialismo insediativo, infatti, punta a «sostituire completamente la società nativa con la propria. I coloni sono spesso degli emarginati nei loro territori» e addirittura, nella fattispecie, sono stati vittime di violenze indicibili in quei territori. Come ci ricorda Pappé, «Il Nord America, dopotutto, fu colonizzato da persone in fuga dalle persecuzioni religiose in Europa.». Non a caso, dunque, ancor oggi il legame USA-Israele è fortissimo, reso ancor più saldo dal principio intoccabile della terra occupata in quanto Eden, Terra Promessa. Non va neppure dimenticata la naturale solidarietà concessa aprioristicamente dall’Occidente al popolo ebraico dopo l’Olocausto, un elemento su cui ancor oggi le autorità israeliane fanno leva, una sorta di ricatto morale che rischia di perpetuarsi in eterno.
La Nakba fu, dunque, solo il momento dell’esplosione palese di un conflitto che andava preparandosi da decenni e che avrebbe visto una triste riproposizione di violenze crescenti. Forse, nonostante la risposta militare israeliana ai fatti del 7 ottobre, ancora non si è arrivati alla catastrofe assoluta. La parola araba “nakba”, però, significa per l’appunto “disastro” e indica l’esodo forzato della popolazione palestinese all’indomani della fine del mandato britannico e della proclamazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948. La guerra israelo-palestinese combattuta tra il 1947 e il 1948 fu il punto di non-ritorno e trasformò la popolazione palestinese in un’entità quasi nomade, una sorta di triste ironia, dato che una delle leggende perpetuate dalla propaganda sionista è l’inesistenza di un popolo palestinese e di una sua terra, partendo dal presupposto che quella palestinese non sarebbe mai stata una popolazione stanziale. Peccato che vivesse in città vere e proprie ben prima del ritorno degli ebrei nella Terra Promessa.
Inutile raccontare altro. Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina è, come detto, una lettura sufficientemente rapida e ricca di spunti di riflessione, tra cui la divisione che affligge la politica palestinese da decenni, l’indifferenza globale per le sofferenze del suo popolo – considerato di serie B proprio come Israele lo considera inferiore – e il fastidio di buona parte delle nazioni arabe, quasi che i palestinesi siano l’ennesima piaga biblica per colpe antiche del mondo islamico. Leggete Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina e traetene le vostre somme.
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