Intervista a Laura Lattuada: a Spoleto porta in scena Fedra di Ritsos
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Intervista a Laura Lattuada: a Spoleto porta in scena Fedra di Ritsos

Della Fedra di Ghiannis Ritsos amo quella fragilità tipica delle donne mature che si innamorano di un uomo più giovane di loro

Laura Lattuada - Fedra di Ghiannis Ritsos - regia Alessandro Machìa - Spoleto - intervista di Alessia de Antoniis
Laura Lattuada - Fedra di Ghiannis Ritsos -
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26 Agosto 2024 - 22.01


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di Alessia de Antoniis

Arriva giovedì 29 agosto al Teatro Romano di Spoleto Fedra di Ghiannis Ritsos. In scena Laura Lattuada e Andrea Beruatto con la regia di Alessandro Machìa.

Scritto in esilio e terminato nel 1975, poco dopo la fine del regime dei Colonnelli, Fedra, appartenente alla raccolta denominata Quarta dimensione, è forse è uno dei testi più riusciti del grande poeta greco Ghiannis Ritsos; il più palpitante, a un tempo carnale e mistico, interpretato qui da una straordinaria Laura Lattuada.

Ritsos, attraverso il meccanismo della confessio, riflette sul desiderio come oltranza e abisso, che confina con l’estasi; ma anche sul tempo, sulla bellezza del corpo come luogo del mistero, in una prossimità di amore e morte. Fedra parla, dice tutto, dichiara in maniera feroce il suo desiderio bruciante per il giovane e bellissimo figliastro Ippolito. Parla a un corpo che l’ascolta muto, quel corpo che si nega, si sottrae, e che per Fedra è una casa, un tempio. Ippolito, nella sua fissità da oggetto del desiderio è esposto allo sguardo, su un piedistallo, come una statua greca, offerto per essere scrutato e toccato, come un Cristo sul quale Fedra rovescia addosso parole deliranti e lucidissime, di passione cieca e di negazione.

Questa liberazione della parola avviene in una scena obitorio, fredda, invasa da una luce bianca e fatta di pochi elementi d’arredo, i cui bisturi sono proprio quelle parole che in un eccesso lirico e allo stesso tempo erotico, tentano di toccare il corpo di Ippolito, di comprometterlo, di gettarlo nel mondo, di umanizzarlo, smascherando come falsa la castità del ragazzo, il suo rifiuto del desiderio, “la santità della privazione”.

Ma a Fedra, inconciliabile e umanissima, di fronte all’impossibilità di conoscere quel corpo e alla sproporzione del suo desiderio senza compimento, di fronte alla “gelida santità” di Ippolito, non resta che il suicidio e la vendetta della lettera infamante, come ultima possibilità di “toccare” l’amato.

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Un minuzioso lavoro di sonorizzazione della scena, di tessitura di suoni reali della natura e di rumori come provenienti dalla psiche di Fedra, merito della regia di Alessandro Machìa, farà emergere quella quarta dimensione, quell’invisibile che abita i testi di Ritsos, dando vita a uno spettacolo polivocale, onirico e fortemente suggestivo.

Di Fedra parliamo con l’attrice Laura Lattuada.

Fedra è una donna caratterizzata da sensualità, rimorsi, paure, illusioni; è passionale. Si è trovata a suo agio in questo ruolo? Ha trovato similitudini tra lei e Fedra?

Personalmente cerco di non avere mai similitudini con i personaggi che interpreto, ma Fedra è un personaggio così sfaccettato che sicuramente, pensandoci, un’attrice può ritrovarci qualcosa di suo. Ma per mio carattere evito accuratamente di ritrovare qualcosa di me in qualsiasi personaggio abbia mai interpretato. Nonostante Fedra sia una donna forte, che prende una decisione importante, dura, faticosa, che sia una donna passionale, che sia comunque una regina, di lei amo la fragilità. La sua è la fragilità che caratterizza moltissime donne dopo una certa età… anche io sono una donna matura… quella fragilità che emerge quando si innamorano di un uomo più giovane di loro. Mi fa tenerezza questo lato di Fedra. Essendo una donna intelligente, Fedra è consapevole di questo. Ma l’amore, la passione più che l’amore, è più forte di tutto. Ecco perché di Fedra amo la fragilità.

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Quali le difficoltà maggiori nell’affrontare la drammaturgia di Ritsos?

Ho scoperto Ritsos grazie a Machìa. Quando mi ha mandato il testo, l’ho amato subito per la sua ricchezza di scrittura, fantasia, immaginario; è metafisico, è potentissimo nelle sue visioni. Ma questo significa che, per un’attrice, imparare a memoria quello che lui scrive è difficilissimo, perché non c’è mai un percorso logico. Una persona che ha visto lo spettacolo mi ha detto che è come la pittura astratta: non devi tanto cercare di capire la singola frase, ma ti devi lasciare andare a un flusso di parole. È come Joyce: difficilissimo nella sua grande bellezza. È forse il testo più difficile che io abbia dovuto mai imparare a memoria.

La visione di Machìa di Fedra era in accordo con quello che lei vedeva nel personaggio di Ritsos o le ha fatto scoprire lati diversi?

No. Ma non perché io avessi delle idee e Machia ne avesse altre, ma perché è la mia metodologia di lavoro: arrivo il primo giorno delle prove come se non avessi mai letto il testo. Amo affidarmi totalmente al regista. Ovviamente deve essere un regista, un uomo, una persona di cui ho stima, altrimenti dopo quattro giorni di prove si litiga, si esce dal progetto. Di Alessandro mi fidavo, sapevo che era un grande conoscitore di Ritsos. Sono arrivata il primo giorno di prove e ho letteralmente bevuto tutto quello che mi ha detto e, in corso d’opera, siamo sempre stati d’accordo. Non abbiamo mai avuto un momento di diversità di pensiero e quindi è stato facile. Sicuramente grazie anche al mio modo di lavorare: non arrivo già con il compitino fatto a casa, trovo che sia sbagliato.

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Uno dei temi è il senso di colpa di Fedra. Se fosse Teseo a innamorarsi di una ipotetica figliastra non darebbe così tanto scandalo. Quanto indurre il senso di colpa nelle donne fin da bambine è ancora oggi strumento di potere?

Sono parzialmente d’accordo. Mi piace dire, pensare, comportarmi in maniera tale che non ci sia più questo. Si è vero gli uomini… però forse siamo anche noi donne che glielo lasciamo fare. È vero che un uomo anziano, se si innamora di una donna più giovane, è più accettato dalla morale comune. Ma innamorarsi di una figliastra credo proprio di no…

Comunque non sono d’accordo con questa mentalità femminile. Preferisco pensare che un uomo possa innamorarsi di una donna più giovane e mi ostino caparbiamente a metterlo sullo stesso livello di una donna che si innamora di un uomo più giovane. Mi ostino a pensare che la sottomissione, il potere che tiene sottomesse le donne, dipenda molto anche da noi. E  anche l’accettare concettualmente questo modo di pensare. Non sono d’accordo neanche con il me too: credo che, se una donna vuole fare delle cose… certo perdi il contratto, perdi la scrittura, perdi il copione…

A me è capitato tante volte, ma sono luoghi comuni dai quali noi donne dovremmo rifuggire tutte quante dicendo no: non è che perderò una parte se non vado a letto con il produttore; se mi innamoro pazzamente di un uomo più giovane non sono una “mignotta” o una povera deficiente, al contrario degli uomini.

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